lunedì 4 agosto 2014

Glielo dico o non glielo dico?

Di solito mi consiglio con le amiche prima di fare scelte di una certa mole. Mi sa che ne avevo parlato solo con mio padre. È che mi ero svegliata una mattina, dopo l’ennesimo sogno che si ripeteva. Anche io, in un certo senso, avevo sentito la chiamata, come Philipp, forse. Mia mamma mi ha insegnato che l’ultima parola va lasciata al cuore, che specie su certe cose è inutile pensarci troppo, che se il pensiero si ingolfa come una Panda non ti porta da nessuna parte. E come glielo dico?
Scrivendo, naturalmente. Anche se in realtà mi sarebbe piaciuto farlo di persona, ma quando? Giuliano mi aveva detto che sarebbe venuto a trovarmi ad aprile, ma vai a capire. Si era spostato a Cairn nel frattempo, aveva trovato lavoro in un ristorante, una cosa del genere. Il sogno, il sogno dunque. Era un po’ che a lui ci pensavo di meno e allora ecco che ovviamente me lo sogno, un bloody sogno dove io e lui siamo una cosa sola, dove non c’è bisogno di dire niente. E infiniti baci, e mille carezze.
Se ci pensate, ogni volta che ci si innamora ci si innamora di noi. In breve, ho sempre visto l’amore come una specie di Tesi-Antitesi-Sintesi, dove noi siamo la Tesi, l’altro è l’Antitesi e la Sintesi è quel che resta di noi dopo l’Antitesi. L’Antitesi ci parla di noi con un altro linguaggio, come le favole con i bambini. Giuliano era l’orco, era il lupo, il buco nero che se provi a guardarci dentro forse non fa più tanta paura.
E perché tocca a innamorarsi?
Perché l'amore è l'unica energia che rompe certe resistenze, come l'acqua calda rompe più facilmente le molecole di grasso dell'acqua fredda.

«Ma sei seria? Stai dicendo davvero?»
Mi fa lui. Non era importante che lui ricambiasse, cioè sì, ma non era quello il fine, oddio, in parte! Io lo sapevo che mi voleva bene. Speravo solo non se l'avesse presa. Che ne so, non si sa mai. E che diavolo, alla fine gli avevo solo detto che a forza di ragni sulle pareti e buchi nei calzini mi ero innamorata di lui.

«Tu sei scema proprio.»
Questa Simona, la mia amica.
«Se uno mi scrivesse una cosa del genere, io manco gli risponderei.»
«Lui la mia fantasia la capisce…»
«Ad ogni modo, se non si fa vivo per un po’ non ci rimanere male.»
«Addirittura? Oh, cielo. Vabbè, speriamo non l’abbia presa tanto tragicamente.»
Qualcuno bussa alla porta della mia camera. È Philipp.
«Posso entrare?»
«Certo, come posso aiutarti?», lo guardo pronta a ricevere un’informazione rapida e veloce, ancora con l’auricolare alle orecchie.
«Così, ero passato a trovarti… hai dato un’occhiata al libro che ti ho dato?»
«Uh. Certo. Sì, scusa, entra pure, Simocisentiamodopo.»
Dentro la mia camera sembrava una giraffa. Ah, già, non l’ho detto, Philipp nel frattempo mi aveva assegnato un’altra camera visto che sarei rimasta per parecchio tempo, una doppia-quasi-singola perchè l’altra ragazza, Paula, veniva solo pochi giorni a settimana.
«Come stai?»
«Bene, alla grande.»
«Come ti sembra la nuova stanza? Carina vero?»
«È favolosa, davvero, grazie infinite. Ho un tavolo tutto mio, finalmente, non potevi farmi regalo più grande!»
«Figurati.»
Rimane per un po’ in piedi, poi avvicina prudente per sedersi sul letto, dove gli faccio posto.
«Che ne pensi del libro che ti ho dato?»
«Sembri un ragazzo sveglio, come puoi leggere questa roba?»
«Questa roba, come la chiami tu, è il Bagavagita, uno dei più importanti testi di filosofia di Krisna.»
«Non è filosofia questa, mi ha dato un libro che dice cosa è giusto e cosa è sbagliato senza dare troppe spiegazioni, non ci vedo tanto amore-per-la-conoscenza. Però magari è colpa del mio inglese... hai letto la Montagna incantata di Thomas Mann? No? Assomiglia un po’ alla vita che facciamo noi qua. Thomas Mann lo conosci però, spero!»
Inizio col fargli un pippone infinito sui libri che non può fare a meno di leggersi e il film che non può fare a meno di guardare. Glieli scrivo addirittura. E lui sta lì, ad ascoltarmi, buono come un gatto.
«Dimmi che ti ha detto tua mamma quando sei andato via di casa per farti monaco!»
«Ancora con questa storia! Basta, smettila! Te l’ho detto, avevo preso la mia decisione, cosa avrebbe dovuto dire…»
«E adesso che ti dice?»
«Sono cinque anni che vivo da solo!»
«Cinque anni che vivo da solo, non hai nemmeno la barba…»
«Sì che ce l’ho, guarda qui.»
«Per me questa storia di farti monaco, bah… a me sembri sheel crazy e basta; potevi diventare un ladro, uno spacciatore, un serial killer che tanto era uguale.»
Ride e crolla la testa sulle mie gambe incrociate, reggendosi con una mano sulla mia caviglia.
«Sei un ragazzino, cosa vuoi avere capito dalla vita, 23 anni e basta, anzi ancora 22 per l’esattezza, ne farò io 31 una settimana prima di te.»
«Lo sai che spacciavo quando stavo a Berlino? Cioè, così, tanto per arrotondare… e passavo giornate intere a suonare il piano e a calarmi di funghetti e di acidi.»
«Te l’ho detto, t’ho inquadrato subito… potrei ribattere con un’altra battuta, ma lasciamo stare. Che tristezza però, sempre la droga, non sapete divertirvi in nessun altro modo e avete tutto. Poi all’altro estremo la preghiera, la solitudine e l’astinenza. Lo trovo banale.»
«Tu non hai preso mai niente?»
«Ho provato giusto un paio di cose, le più popolari, acidi e funghetti non so nemmeno che forma hanno…»
«Ti assicuro che è sensazionale!»
«C’è anche un cretino che conosco che dice che chi assume droghe è più intelligente, ma lasciamo perdere...»
Philipp intanto roteava la testa e si stirava le spalle.
«Ho un mal di collo questi giorni, ci vorrebbe un bel massaggio…»
«Eh lo so, anche a me mi viene ogni tanto il torcicollo, avrai dormito storto. Su Youtube ci sono un sacco di video per farsi passare il mal di schiena, funzionano, io ho fatto alcuni esercizi per la mano, adesso però è meglio che la tengo a riposo...»
«Ti fanno male le spalle adesso?»
«No, tutto a posto. Che ore sono?»
«Sono le sei passate, forse dovremmo andare a cena. Senti, domani sera facciamo il falò, ci vieni?»

lunedì 28 luglio 2014

Giuliano, sei il mio buco nel calzino.

Sono trascorse ormai un paio di settimane dal mio arrivo e quando Philipp mi chiede per l’ennesima volta se voglio partecipare alla meditazione delle 4:00 del mattino, la mia risposta è ancora no.
Un po’ mi incuriosisce, sono sincera, ma resta di fatto che le 4:00 del mattino sono ok per rientrare a casa, non per svegliarsi. Magari è l’occasione buona per togliermi dalla testa Giuliano. Sì perché, dopotutto, che senso ha pensarci ancora?
Eppure ogni pretesto balordo me lo porta alla mente: può essere la risata inconsulta di un cocobarra tra le cime blu degli eucalipto, o l’unica mela ammaccata nel cesto di frutta. Il ragno nel bel mezzo del muro, il buco nel calzino, il segno del cuscino sulla guancia quando ti svegli; per il brivido liberato da una piccola sorprendente sorpresa. E finisce così che Giuliano, per un motivo o per un altro, ce l’ho sempre lì.
«Suoni qualche strumento?»
Philipp si aspettava una mia risposta dall’alto del suo metro e ottanta. «Peccato,» ribatte affettando il tono di voce, «poteva essere interessante». Annuisco cordialmente senza agganciarmi alla sua voglia di parlare.
La sala da pranzo è viva e languorosa. Fuori è sera e gli ospiti spostano le sedie in cerchio per stare  più vicini. C’è un uomo del Belgio che mi guarda spesso e che mi sorride. La figlia di Ruth, la cuoca, ha 12 anni e mi fa domande sul perché e sul per come disegno col computer. Io le dico alcune cose vere e altre inventate, lei capisce e cominciamo a scherzare. Philipp, che era rimasto in piedi dov’era, fila al pianoforte e comincia a suonare. Dicono di lui che sia bravissimo, ma non sta eseguendo Beethoven o Liszt, quindi non saprei. Faccio caso che ultimamente si siede spesso vicino a me a tavola ma ogni volta si agita come se stesse partecipando a un provino: fa le imitazioni, corre da una parte all’altra del tavolo, cita in sanscrito e in latino, fa il serio, il matto, l’intellettuale; e visto il multi-tasking penso che può essere anche lui dei Pesci come me, e infatti lo era.
«Tengo la lezione tra un’ora, nella casa verde; mi farebbe piacere se tu partecipassi.»
Non è che morissi dalla voglia. Volevo collegarmi su skype per parlare con Sofia e mio padre, ascoltarmi i messaggi vocali degli amici su whatsapp e guardarmi Breaking Bad. Poi Lea mi dice se mi va di fare una passeggiata con lei e Till dopo la lezione, e quindi accetto e mi prendo tutto il pacchetto.

Le scarpe vanno lasciate fuori, mi dice Lea. Stanno tutti seduti all’indiana per terra a cantare una preghiera. Philipp è al centro, vestito di una tunica bianca, suona e canta. C’è una specie di saluto da fare quando si entra, in pratica si deve accostare la fronte al pavimento. Dopo i canti, Philipp comincia la lezione. Per quanto ha soli 23 anni si atteggia con la sicurezza e l’esperienza di un uomo di profonda saggezza. Le ragazze sono visibilmente attratte dal suo personaggio e lui si compiace della loro tacita adorazione. A 30 anni suonati certe personalità non mi fanno più tanto effetto e osservo la scena con tenerezza. La lezione è strutturata come quelle degli incontri di CL, i concetti sono semplici anche per un idiota, e il vocabolario non solo è ridotto e limitato, ma è del tipo che fa presa sui disperati. Poi a una certa, quando dice senza mezzi termini che i presenti in sala sono migliori di quelli che vanno ai club e alle feste bevendo alcol, eccetera, mi viene naturale ribattere «cioè di quelli come me?».
Philipp si mette a ridere graziosamente, poi comincia il dibattito. Non dico esattamente quello che penso, anche perché sono appena arrivata, voglio studiarmela un attimo. Era un mondo totalmente nuovo per me, non avevo visto niente del genere prima. I ragazzi sono carini e gentili, tanto i monaci che i viaggiatori, nel senso che in un posto del genere non ci finisce, per intendersi, un punkabbestia, se non per disintossicarsi.
Finito tutto, io, Lea e Till ci incamminiamo per la collina. È un buio cieco, ci sono alcuni lampioni ma non illuminano tanto, per fortuna abbiamo le torce. Lea mi piace. Anche se è timida e parla pochissimo, è una ragazza sveglia. Till è un buontempone, riflette sulle questioni che gli poni e ti risponde giudiziosamente, ma senza alambiccarsi troppo o prendersene pena.
Dopo circa mezz’ora arriviamo in cima. C’è tutto il mare lì di sotto e Woolongong illuminata. Ho trovato dei nuovi amici e ne sono felice, da sola mi annoiavo troppo.

Il giorno dopo ritorno alla casa verde e chiedo di Philipp.
«Ti posso parlare di ieri sera?»
Gli chiedo un sacco di cose, lui è ben contento di rispondermi. C’è un bel sole, una bellissima giornata. Ci mettiamo in veranda a parlare.
«Quando hai deciso di diventare un monaco?»
«Avevo 17 anni, ho conosciuto un ragazzo che mi ha introdotto in un circolo hare krisna; è difficile da spiegare cosa mi ha spinto a diventarlo, l’ho sentito, così mi sono rasato a zero e sono partito per il Sudafrica, lasciando casa e scuola. Avevo i capelli lunghi, sai?»
«E tua mamma che ha detto?»
«Cos’ha detto, niente, che doveva dire, avevo preso la mia decisione.»
«E una ragazza ce l’avevi?»
Si mette a ridere, gli erano venute le fossette sulle guance. Ha la pelle rosa e chiara, quasi non c’è ombra di barba. Penso che di quel tipo lì diventano brutti invecchiandosi. Ero stata un po’ sfrontata, anche se la domanda era semplice e banale, ancora non ci conoscevamo bene e aleggiava un certo rigore nella casa verde.
«Io posso diventare monaco?»
«Vuoi diventare monaco?»
«Dico, se volessi.»
«Certo che puoi.»
«Perché allora i monaci sono tutti uomini?»
«Credo ci siano differenze tra uomini e donne, che non vuol dire –»
«Allora non è vero che posso diventare monaco? Quindi siete sessisti come nel cattolicesimo –»
«Ci sono delle differenze “biologiche” che non mi potrai negare, come che la donna è più emotiva, ha più difficoltà nel prendere il distacco dalle cose, all’uomo resta più facile, che non vuol dire che sia migliore o peggiore…»
Il discorso si faceva ampio sul ruolo del monaco, c’era da tirare fuori Platone e altre storie, per cui ho glissato e proseguito con le altre domande sul guru e come lo si diventa.
«Tu vuoi diventare guru?»
Lì l’avevo visto cambiare espressione, come se lo stessi prendendo per il culo, che un po’ effettivamente era.
«Ma che significa? Non è che lo puoi decidere tu, vieni scelto…»
«Ho capito, ma ti piacerebbe? Nel senso, come vivi questa spiritualità – non ti prendo in giro, sto solo cercando di capire… se diventi guru significa che hai raggiunto un certo livello di crescita spirituale, no?»
In lontananza vediamo avvicinarsi dei cervi. È sempre un piccolo miracolo vedere i cervi, specie da tanto vicino.
«A volte arrivano fin qui, sotto la mia finestra. Entriamo dentro, c’è un libro che voglio farti leggere.»

lunedì 21 luglio 2014

Dalla città alla foresta.

Felice, felicissima di lasciare l’ostello. L’ultima sera l’ho trascorsa in camera con le ragazze che ci avevo trovato dentro. La ragazza di New York secondo me era un tutt’uno con il letto e il portatile, non l’ho mai vista in piedi, nemmeno per andare a fare pipì. L’inglese si coricava tutti i giorni alle 18 e passava qualche ora sul cellulare prima di addormentarsi. L’ultima sera siamo state un po’ insieme a chiacchierare e ho letto i tarocchi a tutte. Ovviamente, professionista del campo, le ho lasciate tutte piacevolmente sorprese, anche l’australiana alcolista, che tra una chiacchiera e l’altra s’è scolata una bottiglia intera di vino da sola.
Ero felice più che altro di trovare un posto dove stare.
Prendo il treno da Town Hall. Sulla mappa, Coadcliffe è nel bel mezzo del Parco Nazionale. Sembra davvero vicino alla spiaggia e a giudicare dal sito web Vamana Valley sembra un paradiso, questa volta non mi sbaglio.
Il treno si allontana da Sydney, chilometro dopo chilometro, passata la stazione di Engadine, i centri abitati cominciano a scarseggiare. Dal finestrino vedo solo immense distese di eucalipto e qualche palma, che si stirano morbidamente fino a unirsi nell’orizzonte. Scendo a Helensburgh per cambiare. Wow, sono completamente in mezzo alla giunga! Non so se posso chiamarla “giungla”, ma ci assomiglia molto.
Alla stazione di Coadcliffe non c’è niente. C’è una signora dai capelli di nuvola seduta su una panchina con i piedi a mollo in un catino. La individuo subito come la classica persona bizzarra che bazzica per ritiri matrici e connessioni spirituli, le chiedo quindi dove posso trovare Vamana Valley e lei senza esitare mi dice di girare a destra una volta arrivata infondo alla via.
Il posto è vicinissimo alla stazione, tre minuti a piedi con lo zaino da 20 kg. Giardino immenso, curatissimo, campo da pallavolo, parcheggio. Tre edifici di diversa grandezza. Uno, scoprirò poi, è il dormitorio maschile dei devoti di krisna, uno l’abitazione della cuoca e di sua figlia, l’altra composta da due ali laterali e un corpo centrale di due piani è la sede principale. Le ali laterali sono le stanze per i guests e i volontari, il corpo centrale ospita due ampi saloni in parquet per gli yoga retreit, la sala da pranzo e la cucina.
Mi dicono di parlare con Philipp. Mi immagino, non so perché, un signore anziano, invece è un ragazzo tedesco di appena 23 anni. È carino, sicuramente non il tipo di ragazzo che può piacermi. Io invece mi accorgo di piacergli subito. Mi spiega a larghe linee cosa comporta essere un volontario: in pratica ci si divide i compiti tra gli altri volontari che consistono in apparecchiare per colazione, pranzo, cena, lavare le pentole (i piatti ognuno se li lava da sè), pulire le stanze degli ospiti, i saloni eccetera. Mi racconta poi di essere un monaco, che a 17 anni è andato via di casa, interrompendo gli studi, tutto, per rasarsi a zero, vivere per krisna e volare in Sud Africa. Si vede che è un ragazzo sveglio, molto, molto serio, di quelli con il palo nel culo, come li chiamo io, ma tutto sommato piacevole.
La mia camera è molto carina e accogliente. Ci sono quattro letti, due dei quali a castello. Lea è la ragazza tedesca che divide la stanza con me. Al momento non ci sono altre ragazze a parte Paula, un’australiana di Sydney che viene ogni tanto. Anche lei è silenziosissima, un po’ per timidezza, un po’ per il suo inglese insicuro. Tutto il posto è ovattato nel silenzio. Le chiedo se è anche lei una devota di krisna, mi dice di no. Mi spiega che Joan tiene tutte le sere dopo cena la lezione spirituale e che ogni tanto ci va. Mi dice poi di seguirla che mi mostra il posto. Lei è in Vamana Valley da due mesi ormai. Ci era arrivata con l’idea di fermarsi qualche giorno, poi invece si è trovata bene. L’odore del posto è quello della Chiccoteca di Pesaro, legno, infusi e incensi. No alcol, no fumo, no carne e derivati, solo alimentazione vegana. Nel salone c’è il pianoforte e tanti tavoli in legno massiccio. Su un banco ci sono i tè, gli infusi, un mini frigo con il latte di mucca, di riso, di soia, di original soja. Zucchero rigorosamente di canna, frutta. Prendi quello che vuoi, mi dice.
Mi faccio una doccia e mi preparo per la cena. C’è un tavolo grande per i volontari. I krisna boys fanno gruppo, sono carini ma non troppo socievoli, e altri due ragazzi tedeschi. Il mio inglese è ancora sbilenco, è la prima volta credo, da quando sono in Australia, che non c’è traccia di italiani intorno a me. E la cosa mi fa molto piacere.
Ci metto un po’ prima di sentirmi totalmente a mio agio. La lingua vuol dire tanto. Ho ancora tanto da imparare – e sono trascorsi tre mesi – mi perdo parecchi dettagli, mi stanco un sacco, mi esprimo in maniera grossolana. Nonostante l’esitazione delle mie prestazioni linguistiche non ostacola il mio sense of humor, che è in grado da solo di intrattenere una tavolata.
Dopo cena aiuto Till a lavare i piatti. È un ragazzo tedesco di 19 anni, davvero carino e simpatico. Sono felice dell’ambiente che ho incontrato. Sono tutti molto rispettosi e gentili, curiosi di sapere da dove vieni e che fai. Curiosi, ‘via un pretesto di cui parlare.

Vado a letto presto. Sono così felice di essere in questo lettino di betulla, con la coperta e il portatile sulle ginocchia. Wi-fii everywhere, yeah. Inzio (col duplice significato del termine iniziare) la settimana con la prima puntata della serie Breaking Bad, che mi terrà compagnia per giorni e giorni. Ho detto già a tutti che ho intenzione di fermarmi a Vamana per un paio di mesi, per via del libro, e tutti sono molto contenti.
Il giorno seguente mi sveglio con una proposta della rivista francese Transfuge di illustrare in cinque giorni l’articolo sull’ultimo libro di Walter Siti. Sono un po’ in panico per la tempistica, ma di buono c’è che essendo in Australia ho un giorno in più. Mi tocca a disegnare nel salone dove si pranza perché mi serve un tavolo. Mi scoccia un po’ non avere il senso della solitudine attorno, importantissimo per un disegnatore, e il via vai di gente che passa e vuole vedere che fai non è il massimo, ma direi che posso ringraziare tanto e forte perché sto giro m’è andata davvero, davvero bene!
La colazione comunque è immesa. Tre tipi differenti di pane, due tipi di burro, marmellate, Vegemaite, burro di noccioline, tre differenti tipi di cereali, latte di mucca, di riso, di soja, frutta. La colazione è e resterà per sempre il mio pasto prediletto.

Gli ospiti, i guests, non vi ho detto, ma l’avrete immaginato, vanno e vengono. Al mio arrivo c’è uno sparuto gruppo di danzatori e suonatori della Taketina, una danza eseguita cantando, che ho provato a farmi spiegare, che tende a riprodurre “le vibrazioni della natura e perciò, praticandola, entriamo in contatto con essa”. Ma qual è lo scopo, chiedo a uno dei maestri, “vivere in armonia e in assoluta pace”. Vi anticipo già che è stato il gruppo più simpatico tra quelli che ho incontrato in ben quattro mesi, dalla metà di febbraio alla metà di maggio. Per la maggior parte saranno gruppi yoga, niente di particolare, la gente viene per fare ginnastica. I migliori sono quelli che cercano le “connessioni” che hanno voglia di parlare e di attaccare bottone. I peggiori quelli del silenzio, tipo stanno dieci giorni senza parlare, si alzano alle cinque per meditare e alle sette di sera vanno a dormire, e quelli che gridano, che invece urlano per una settimana di fila, ma non mi sono mai capitati.

Le prime giornate trascorrono veloci grazie alle illustrazioni da fare. Mi è tutto ancora molto estraneo, non mi sento a casa. Ho notato però che questo è normale viaggiando, ci vuole sempre un po’ all’inizio prima di ambientarsi, e una volta che lo sai ti passa prima.
Non mi danno mai le colazioni, sempre il pranzo e la cena, questo significa che posso dormire fin che voglio, la colazione la smantellano alle dieci. Significa anche che posso disegnare fino tardi, immersa nella notte, finalmente sola. Quasi sola. Un opossum entra nel salone e si fionda a mangiare la frutta. Quant’è bello!!! Non ho mai visto un opossum dal vivo. Mi avvicino. Tanto. Ha il nasetto rosa rosa, gli occhi neri dei roditori, una bella coda lunga striata, più gonfia all’estremità. Riesco a toccarlo, troppo impegnato a mangiare per curarsi di me.

martedì 15 luglio 2014

«Baldi, a te capita in un giorno quello che a uno normale capita in un anno».

«E invece, di un po’, come sono i piselli di Sydney?»
La Central Lybrary è luminosa e accogliente come un Apple store. Sul tavolo in legno chiaro laminato, col beneficio del wi-fi gratuito, rispondo a Giuliano sulla chat di facebook.
«Sei sempre un signore…»
«Allora?»
«Ti ricordo che sono qui da quattro giorni.»
«Daaai, a me puoi dirlo!»
«Diavolo! Per ora ho conosciuto solo mandrie di ragazzini arrapati, per carità...»
«Ci sarà qualcuno decente…»
«No, e poi “decente” non è un grande premessa…»
«Vabbè…»
«Ma poi scusa, a te che te ne frega?»
Cielo, come mi manca.
«Comunque, io e Genna ti veniamo a trovare.»
A chilometri di distanza, nello stato del New South Galles, l’assenza di Giuliano è più forte di una sua ipotetica presenza. Per qualche ora si prende tutta la mia testa e non c’è verso di mandarlo via.
«Excuse me…»
Il ragazzo seduto accanto a me, ma sì, certo, ci eravamo conosciuti al party della sera prima.
«Hey, ciao, sì, sono io quella della festa, come stai?»
È un bravo ragazzo senz’ombra di dubbio, lombrosianamente parlando. È inglese, dello Yorkshire, quindi pronuncia bus come si scrive e non /’bas/. Parliamo delle solite cose di cui parlano tutti i backpackers. Entrami stiamo cercando lavoro, o meglio, stiamo cercando di capire cosa vogliamo fare. Restare a Sydney o ripartire?
Concordiamo che Sydney è davvero molto cara. Il rischio è spendere un sacco di soldi prima di trovare lavoro, se lo si trova. Non ho molto denaro con me, sono partita con 2,000 dollari da cui ho tolto i 250 dollari delle bollette, il treno, l’ostello e in generale sopravvivere in City.
Poi, mio problema sono sostanzialmente due problemi: la tendinite che mi ha distrutto le mani, e che quindi devo tenere a riposo, e i disegni per Emma di Jane Austen da cominciare ad illustrare tra un mese circa.
Per il libro, per il quale ho bisogno di una connessione internet, un tavolo e un lavoro part-time, la situazione ideale sarebbe fare woofing in un giardino bio-dinamico a ridosso di Sydney, magari anche sul mare. E Vamana Valley, un residence hare krisna che ospita eventi spirituali, attività di danza, yoga eccetera, sembra una buona soluzione. La descrizione del posto riporta anche la presenza di 15 volontari, e la cosa mi piace: voglio stare in mezzo ai ragazzi, famiglie e coppie solitarie bandite per sempre. Decido anyway di dormirci su.
Cazzeggio su facebook per un po’ prima di tornare in ostello. Modifico la località del mio profilo facebook, cancello Melbourne e scrivo Sydney, non si sa mai. Nel giro di nemmeno un paio d’ore vari amici mi contattano con lo stesso oggetto Oh, ma sei a Sydney?

Lo sai che a Sydney ci sta la Noe col moroso?
Lo sai che a Sydney ci vive Mascioni con la moglie? Daaii, Mascioni! Sei venuta con me un giorno a casa sua all’Acqualagna, ti ricordi?
Lo sai che a Sydney ci vive mio cugino?
Lo sai che a Sydney ci sta uno che giocava a calcetto con me nel 1998?
Lo sai che a Sydney ci vive Del Piero?

Digli che sei mia amica.
Chiedigli l’amicizia su fb, ti aiuta di sicuro a trovare lavoro, al massimo vi fate un birra!

Il bello di essere Italiani all’estero è che di sicuro non ti puoi sentire solo, nel senso che se anche ti ci impegni non ce la fai a isolarti. Deve essere qualcosa di profondamente radicato nei geni, nell’istinto, come i piccioni viaggiatori che non si perdono mai, sì, deve essere per forza qualcosa del genere. E non riguarda i francesi, ad esempio, e tanto meno gli inglesi o i finlandesi; appena forse i tedeschi, ma solo per vendersi o affittarsi autoveicoli e posti-letto, lavorare, ottenere informazioni utili per viaggiare.
La Noe comunque è in chat, M’ha detto l’Eli che sei a Sydney! Questo è il mio numero.
Mascioni intanto mi ha risposto su facebook e anche lui mi lascia il suo numero.
«Cate, madonna, come stai?»
«Ciao Marco! Bene, sono arrivata qualche giorno fa!»
«Ascolta, che fai adesso? Perché non vieni a casa mia? Oh, ma la Mari come sta?»
Finisce che vado a casa di Mascioni e di sua moglie, passiamo tutta la sera a parlare in dialetto urbinate/acqualagnese. Si discute dell’Australia, dell’Italia, della politica, della nostra generazione, il tempo che passa, le prospettive future. Mangiamo una pizza, c’è anche un’altra coppia di italiani che sono così gentili da riaccompagnarmi in ostello in macchina. Il ragazzo, Luca, 29 anni, del sud, mi racconta che si era ritrovato a Sydney completamente senza il becco di un euro, senza un posto in cui dormire. Quando sei con l’acqua alla gola ti ingegni, e lui aveva trovato ospitalità, non mi ricordo come, da un tizio che gli aveva dato il garage dove dormire. Mangiare praticamente niente per qualche giorno e poi improvvisamente trovare lavoro. Ora sia Luca che Chiara, 26, del nord, lavorano in un carwash. Coi ragazzi ci scambiamo i cellulari, magari si va a Bondi Beach insieme una di queste domeniche.
Il giorno dopo becco invece Noemi a Pyrmont. Mentre la aspetto, un ragazzo in suite elegante decide di tornare indietro.
«Ciao… è parecchio ventoso oggi!»
«Già.»
«Scusami, ma hai degli occhi bellissimi.»
«Grazie.»
«Lo so che non ci conosciamo, ma se magari ti offro un caffè ci potremmo conoscere…»
«Grazie, sei gentile… è che sto aspettando un’amica!»
«Ok, capito… e domani? Posso lasciarti il mio numero?»
«Grazie, davvero, ma sono proprio di passaggio!»
Bah. Davvero, non me lo spiego, era uno dei tanti giorni di bruttezza estrema. La felpa di Leeds University, la giacca a vento della Quequa, il naso bruciato dal sole, seduta per terra come un’accattona. Poi arriva Noemi.

Bella come il sole, lei e il suo ragazzo sono appena rietrati dall’Asia. Io e Noemi non eravamo amiche a Pesaro, cioè eravamo conoscenti. Frequentiamo lo stesso gruppo di amici, solo che quando ho cominciato a uscire con loro lei è andata a vivere a Londra. Eppure dal primo secondo che ci parliamo al telefono è come se fossimo amiche da sempre. La stessa cosa è successa con Nicoletta e Simona. Io, non mi serve tempo per innamorarmi delle persone. Questo fa capire che siamo circondati da un casino di amici potenziali. Il più delle volte la differenza la fa l’apertura con cui ci approcciamo agli altri grazie al momento giusto. Il momento giusto non è altro che la somma di elementi che rendono una particolare circostanza favorevole alla confidenza reciproca. Nel mio caso, l’elemento favorevole è stato condividere lo status di italiani all’estero. Si sa, tutto ciò che ci è familiare ci evita un sacco di fatica e il cervello tende sempre al risparmio energetico. Il bello è che il familiare possiamo trovarlo ovunque, sta a noi, e di conseguenza abbiamo anche il potere di creare il momento giusto. Quello che conta, insomma, è avere familiarità.

lunedì 7 luglio 2014

Sydney.

La stazione del treno è grande ma non grandissima. Niente a che vedere con la Gare de Lyon, la Victoria Rail Station, Roma Termini. E uscendo in strada non ti da la sensazione che ti da New York, quando dopo ore sotto terra, tra la navetta e la metropolitana, sbuchi nel cuore di Manhattan e ti manca il fiato per l’altitudine che l’architettura ha saputo raggiungere. Però ero felice, felice di essere libera, al sicura, in una nuova avventura tutta da decidere.
Sydney non è subito bellissima, ci mette un po’. Devi aspettare il momento giusto, che prima o poi arriverà. Io l’ho amata tra un locale a l’altro con lo spirito di chi si è perso, incontrando qualcuno con cui fare i bagordi, e in una sera d’autunno, negli occhi blu di un francese, tra vino bianco, Truffaut ed enjambment.
Quello che ti salta subito all’occhio di Sydney sono i soldi. Che sono diversi dalla ricchezza. Ricche sono Roma, Parigi, Londra. A Sydney ci sono i soldi. Gli uomini di Sydney non ci sono a Melbourne. Vestono camicie eleganti, girano rigorosamente in completo. Pochi hipsters, al contrario di Melbourne. Discutono fitto al Queen Victoria Building con i palmari e i cappuccini sul tavolo. Sono bellissimi e intoccabili, troppo impegnati per curarsi delle donne e dei turisti che vagolano per le scale mobili in cerca del bagno.
I bagni. Potrei aprire un capitolo solo sui bagni in giro per Sydney. Quello del Queen Victoria Building – che scusate non ho detto, è un edificio liberty del tardo Diciannovesimo secolo che ospita negozi raffinati e cafè all’ultima moda – ha il pavimento piastrellato bianco e nero, i rubinetti in ottone, un’infilata di specchi sospesi al centro della stanza. Ne ho visti altri degni di nota in club panoramici in cima a The Rocks, ma questo accadrà in futuro, in compagnia degli occhi blu d’oltrape.
Per il momento arrivo all’ostello consigliato dalla Lonely Planet e mi danno una camera con sei letti a castello. Due inglesi, una tedesca, un asiatico. Arriverà poi un’americana che non uscirà mai dalla stanza, un’australiana alcolista e un brasiliano che una mattina troverò schiantato sul letto con le braghe calate giù.
Primo giorno voglio rilassarmi, mi dico, non mi va di angosciarmi subito con la ricerca del lavoro. Mi faccio un giretto qua intorno, tanto per farmi un’idea. Sydney, per chi non avesse idea, assomiglia alle fauci di un mostro visto di profilo. Il cuore della City, in un certo senso, è sul canino dell’arcata inferiore e intorno si impetalano gli altri quartieri. Il cuore della City, inteso come la zona che va oltre la Central Station e comprende Pitt St. e George St., non è un gran che. È pieno di backpaker, locali per backpaker, negozi, centri commerciali sotterranei (come a Melbourne ma molti di più e più grandi). A parte l’Opera House, i giardini botanici, ho amato molto i quartieri residenziali di Surry Hills e di Ultimo, Redfern, le case dei pescatori di fine Ottocento restaurate, bagante dal mare. The Rock è molto, molto carina, fai le scalette e arrivi in alto. Ci sono i locali più sciccosi e, devo dire, Sydney è una città che ti godi davvero se puoi spendere, a meno che di fare l’incontro giusto, o a meno che di partecipare alle serate per i backpaker dove paghi $20 per bere a sfondo in quattro locali diversi, c’è un gioco da fare di solito e chi vince va in vacanza gratis da qualche parte.
Ad ogni modo, quel primo giorno mi sento molto sola. Vado a letto presto, perché non so dove andare, perché ho voglia di sentirmi al sicuro. Marco, il ragazzo italiano che faceva le pizze e il dj, con cui ero stata a letto una delle ultime sere prima di partire, mi scrive ogni sera un messaggio e mi è di gran conforto, mi sento coccolata. La seconda notte però penso che devo assolutamente trovare una festa.
Sapete come funzionano molti ostelli, hanno la cucina e tu cucini. Compro il minimo indispensabile, il pane, due pomodori, le uova, due scatolette di tonno e il caffè solubile che mi devono bastare per l’intera settimana. L’acqua una bottiglietta che è sempre quella che riempio dal rubinetto e che fa schifo, ma qua l’acqua costa una follia, è carissima, come il gelato e la cocaina. Meglio l’acqua del rubinetto e la meth. Gli ultimi giorni avrò un’acidità di stomaco che non vi sto a raccontare. Finisco di cenare e mi piazzo in uno dei tavolini per farmi preda. I ragazzi dell’ostello stanno facendo un gioco e alla domanda “what is the Fandango?” io rispondo che è una danza. La squadra vicino mi fa cenno di partecipare.
Durante e dopo il gioco ci beviamo litri di vino in cartone, un misto tra Tavernello e tisana ai frutti di bosco. Poi si esce, maratona nei locali, si beve gratis. Età media 22, 23 anni. Dopo un po’ che prendo confidenza con il gruppo sfoggio i miei soliti numeri da cabaret: danze di ogni tipo, mischiando cultura, abilità e simpatia – l’ho detta come Caterina Balivo –, fischio. Lo so, è il solito repertorio di scemenze, mi sembro quei bontemponi di cinquant’anni che si sono giocati le stesse battute per una vita, ma tanto nessuno dei presenti m’ha mai visto e mai mi rivedrà più e ognuno, come da manuale, resterà piacevolmente sorpreso.
Sono anche come al solito vestita male e, sempre come al solito, in pochi minuti sono accerchiata dai maschietti. Eh, lo so. Trent’anni vorranno dire qualcosa, o no? Consapevolezza del proprio corpo, nessun tipo di dramma, ammiccare con leggerezza, e fine. Che poi è per scherzare e basta. Una ragazza che era con me si era però avvilita moltissimo. Si era agghindata con dovizia, avrà avuto sì e no vent’anni, florida e carina. Doveva sedurre qualcuno a ogni costo o sarebbe crollata psicologicamente quella sera. Si annaffia ripetutamente con una schifezza di gin e Redbull, quando non ce la fa più si bacia il primo che le passa davanti, poi molla e torna in ostello con le altre ragazze. Mi chiedono se voglio rientrare anche io. Non ne ho molta voglia a dire il vero. Mi volto per vedere chi c’è rimasto: solo due ragazzi svedesi.
Resto.
Siamo in tre, e l’atmosfera è pacifica e rilassata. Siamo in strada, siamo stanchi e abbiamo fame. Mi piace andare in giro con i ragazzi, non gliene frega niente. Le ragazze, specie se non le conosci bene, ti richiedono uno sforzo di delicatezza.
Non ricordo i loro nomi, ce li ho su facebook ma non ci siamo mai sentiti. Uno, Jorg (per dire), è alto, di bell’aspetto, ha la mia età e fa il ballerino di danza classica. Non ha niente dei ballerini di danza classica, assomiglia invece in sacco a Lorenzo Lamas, quello di Renegade. L’altro, Jirk (sempre per dire), basso, moro, tratti mediorientali. Lo guardo bene, non mi sbaglio.
«Sei iraniano?»
Gli canto Jane Marian, che mi avevano insegnato Sarah e Neda quando vivevo a Milano e loro erano in Italia per studiare una architettura, l’altra disegno industriale. E anche Jane Marian la ripropongo sempre ogni qual volta incontro persiani lungo il mio cammino.
Lui mi dice, Oh my God, I’m fall in love with you. Mi prende sotto braccio e torniamo in ostello tutti e tre insieme.

Il giorno dopo mi sveglio abbastanza presto e dopo la colazione mi dirigo per la biblioteca.
Questa è bella.
Incontro la ragazza inglese della sera prima che vedendomi sembra a disagio, ma io non me ne curo anche perché per quel che mi riguarda non ce n’è motivo. Lei mi dice che sta cercando lavoro, io che ancora non ho deciso cosa fare, comunque in teoria uguale.

Cammina, cammina, un cameramen, una giornalista con il microfono in mano. Si guardano intorno rapidi per pesacare qualcuno da intervistare. Incrociano i miei occhi e non posso fare a meno di fare un gran sorriso. La ragazza inglese se ne va, non vuole partecipare. Ahahah! Certo, solo a me può capitare qualcosa di simile. Come mi dirà poi Giuliano, Baldi a te capita in un giorno quello che a uno normale capita in un anno. Insomma, finisce che mi intervistano. Mi chiedono se soffro di mal di testa, quando mi viene e come me lo tolgo. Io mi figuro subito che magari lo Scozzese mi vede in televisione e si fa una risata. A parte lui, rispondo da gran signora che il mal di testa ce l’ho se mischio vino e birra, e che per farmelo passare mi prendo una pasticca e via.

domenica 29 giugno 2014

Ecco perché in fattoria non ho resistito un giorno.

Ci vogliono circa dieci ore di pullman da Melbourne a Canberra. Che poi a Canberra devo cambiare e prendere un altro pullman per Goulburn, che non è ancora l’ultima destinazione e non lo sarà nemmeno Crookwell, il primo centro abitato da un paio di famiglie, con un bar e un benzinaio dal quale la fattoria dove sono diretta dista quaranta minuti.
A Goulburn mi era venuto a prendere Greg, un uomo sulla cinquantina con la camicia a quadri e un cappello da gaucho dalla falda larga. Salgo sul suo pick up, Greg carica lo zaino grande dietro, mi tengo davanti quello piccolo con il computer e la tavoletta grafica, visto mai le buche. Parla con un accento stretto ma riesco capire grosso modo quello che mi dice.
Non so descrivere come mi sento. La strada è dritta, ce n’è una sola, e si stringe chilometro dopo chilometro. Greg mi racconta come vende i suoi cavalli. Possiede più di 2,000 acri di terreno e un centinaio di capi che lui e sua moglie Toni crescono in libertà. Mi dice che ha buoni affari con gli americani e che vende gli stalloni a cifre vertiginose. Mi faccio silenziosa, non c’è più tanto di cui parlare. È l’ora del tramonto, wallaby e canguri corrono ai fianchi della macchina. I canguri sono enormi, visti liberi hanno dello spettacolare. Ogni tanto ce n’è uno morto ai lati della strada. Chiedo come funziona per rimuoverli, Greg dice che rimangono lì a decomporsi ma secondo me non può essere altrimenti si sarebbero visti in giro scheletri e carcasse.
Dopo un’ora arriviamo alla fattoria. Sinceramente, dopo aver visto il sito web e ascoltato i racconti di Greg mi aspettavo la fattoria dei Mini Pony, coi recinti bianchi freschi di pittura, capannoni enormi, stalle dalle pareti altissime, stallieri fisicati, lo zio Tom.
Tre cagnolini ci accolgono, scodinzolando affettuosi. Cumuli di vecchi motori, ruote di scorta bucate, pezzi di ferro abbandonati. Un albero al centro della più completa desolazione, la casa a dirimpetto. Una costruzione in legno che ricorda le foto da reportage dal titolo ipotetico Quel che resta dell’URSS, che tenuta come si deve manterrebbe ugualmente l’aspetto di una vecchia roulotte che ha ospitato storie di meth addiction e redenzione cattolicopatica.
Dentro casa invece è tutto un altro scenario. Non è vero. Ci sono però tre televisori piatti LCD accesi contemporaneamente e sappiate che qui non è come in Italia che ci è toccato il televisore col decoder per l’illegalità di Rete 4, la vecchia telly tiene ancora botta.
Toni è una donna dolcissima, anche lei sulla cinquantina. Hanno due figli, si capisce dalle foto appese. Mi siedo al tavolo coperto da una tovaglia di plastica. Greg mi offre una birra, certo, ho bisogno di bere qualcosa. La mia stanza è una vecchia camera trasformata in ripostiglio. Ci sono valigie e scatoloni piena di roba, tutta l’abitazione straborda di roba. Come succede ai canguri morti, le cose ad un certo punto trovano un posto e lì vengono dimenticate.
Mi aspetto di dovermi svegliare presto, alle cinque tipo. Durante la notte non chiudo occhio. Ah, già. Il telefono non prende. Non tanto internet, quello me lo aspettavo, ma proprio non c’è linea. Questo significa che la mia unica opportunità di socializzare è Toni e Greg, Greg e Toni. Gli animali, certo. Alla fine era quello che volevo, no? Stare lontana dalle feste e dagli eventi mondani per un po’. Studiare e basta, imparare come si accudiscono i cavalli. Poi quando meno te l’aspetti arriva Robert Redford, si fa per dire.
Al mattino colazione con un caffè. Non ho avuto bisogno della sveglia, ero all’erta a sentire i rumori della casa. Seguo Greg per il cortile, mi fa vedere dove le galline fanno le uova. Ho la mano che mi fa male, il lavoro mi ha distrutto i tendini. Mi guardo intorno, cerco di capire dov’è Toni. Chiedo a Greg di tutti quei motori e moto accatastati lasciati in mezzo al cortile. Lui vuole sapere se ho la patente, così se voglio farmi un giro in paese posso usare la macchina.
Mi dice di salire sul pick up. Siamo io e Greg e basta. Non mi sento molto a mio agio, non mi entusiasma l’idea di passare le mie giornate sola con lui. La strada è tutta dissestata. Ancora i wallaby e i canguri che ci corrono accanto, cerco di emozionarmi ma non ci riesco. Greg ha un grosso coltello vicino al sedile. Quando ferma la macchina mi chiede di aiutarlo a smontare una balla di fieno dal retro e di sparpagliarla intorno.
Il giro non termina mai. Comincio a innervosirmi, è una situazione che non mi piace. Maybe sono con la persona più buona e carina di questo mondo ma in caso contrario non avrei via di scampo. Faccio mente locale sulle possibili opzioni. Lui parla di serpenti, colgo la palla al balzo, cosa succede se morde un serpente. Succede che di solito non accade ma può sempre capitare! C’è solo da augurarsi il meglio perché l’ospedale più vicino è a più di 60 km. Quanti altri woofer avete ospitato, chiedo. Si fa una grossa risata e a quel punto realizzo che devo andarmene: tu sei la prima!
Mi sento in colpa, dubitare di questa coppia solo perché la situazione ha tutti gli ingredienti di un thriller di successo.
Al ritorno, alla sola vista di Toni mi si allarga il cuore. È ancora mattina, sarà appena mezzogiorno. Dico che sono desolata ma che voglio essere riaccompagnata a Goulbourn. Spiego che non avevo idea di come fosse dura la vita di campagna, che non mi sento molto a mio agio senza telefono eccetera.
Vuoi andartene adesso? Non vuoi provare nemmeno un paio di altri giorni?
Hai paura forse che ti ammazziamo?
Credo che la chiusa poteva risparmiarsela ma forse li capisco. Ho cercato di essere più carina possibile ma Greg ormai si era arrabbiato. Dice alla moglie di portarmi giù al paese, che lui non ne ha voglia.
Felice carico le mie cose in macchina. Abbraccio Greg, non me ne frega un accidente se se l’è presa. Sono con Toni adesso, lei è dolcissima. È un caldo afoso fuori, Toni mi aspetta fuori dal supermercato. Insiste che io compri qualcosa da mangiare per il mio lungo viaggio. Non ho ancora idea dove andare.
In stazione appoggio tutta la mia roba per terra. Telefono subito in carica. Mi fa male la mano ma sono di nuovo libera e senza un piano. Non ho molto denaro con me, devo trovarmi un lavoro al più presto.

Mi avvicino allo sportello e compro un biglietto per la città più grande e costosa dell’Australia.

lunedì 23 giugno 2014

Addio Melbourne, ti saluto con tre hangover.

«La verità è che vogliono farci fuori tutti, è così. Vero, babe?»
Tom sostiene che gli aerei con la scia bianca rilascino polveri tossiche per ammorbarci, farci morire o renderci sterili per il controllo della popolazione. Aspira profondamente il suo spinello prima di passarmelo, ma preferisco saltare il giro.
La nuova casa di Tom e Alicia è decisamente in periferia, arrivarci con i mezzi è una rottura, così un paio di loro amiche mi passano a prendere in macchina. È un bel party della domenica pomeriggio. Si festeggiano due cose per la verità: la nuova casa di Tom e Alicia e la mia partenza. Ero reduce di un weekend bello intenso, venerdì ero stata con Marco, il dj-pizzaiolo di Roma, sabato in giro, domenica c’era stato l’Australian Day con Nicoletta e Tamish, che però a una certa avevo abbandonato perché non ce la facevo più.
Quando c’è l’Australian Day tutti gli australiani si riversano in strada per i festeggiamenti. Le prime birre si stappano dal mattino e poi barbeque su barbeque, ovunque. Ogni prato, parco, quel che sia, è colonizzato da capi provenienti da diverse parti della città. Qualcuno è travestito, in molti hanno in faccia disegnata la bandiera australiana e tutti, ma proprio tutti, sono ubriachi. Si svegliano alla mattina già ubriachi di default, secondo me, perché è l’Australian Day.
Ma che cos’è di preciso l’Australian Day? Questa è facile. Festeggia lo sbarco della prima scialuppa britannica a Port Jackson nel 1788 nel New South Galles. Ma se si chiamava New South Galles vuol dire che qualcuno ci era già arrivato prima! E infatti è così. Il nome New South Galles gliel’aveva dato infatti James Cook, che era arrivato a Botany Bay nell’aprile del 1770. Con la prima scialuppa britannica, lui. Il 26 gennaio quindi, più che sbarco della prima scialuppa britannica come dice ogni australiano, è in realtà la data in cui Arthur Philip, primo governatore del New South Galles, inaugura Botany Bay qualche chilometro più a nord e la chiama Sydney. E tu, straniero, che approdi a Sydney per la prima volta, sappi che dove c’è adesso l’aeroporto quella è esattamente Botany Bay.
Alla festa a casa di Tom e Alicia c’è un sacco di gente, la maggior parte li conosco tutti. Ci sono anche Julia e Claire e gli leggo le carte. Claire pensa a Eduard e le dico che anche Eduard pensa a lei, anche se adesso c’è la distanza a separarli. Julia se ne andrà presto in India, un po’ per vacanza un po’ per trovare se stessa. Tanti vanno in India per “cercare se stessi” o per “trovare se stessi” o, ancora, per “ri-trovare se stessi”. Comunque sia, ora mi è chiaro perché l’India è sovrapopolata.
Alicia ha piazzato una piscinetta gonfiabile in mezzo al prato e montato uno dei suoi dj set davanti la cucina. Facciamo una bella foto tutti insieme, con le birre in mano, le collane floreali, io la mano fasciata per la tendinite. Grazie al cielo mai più teglie sataniche da scrostare, finalmente potrò riposarmi. C’è chi piange perché parto, e in effetti, non rivedrò mai più nessuno di loro. Fa strano stare davanti a qualcuno che sai per certo non rivedrai mai più. Per fortuna c’è facebook, ma anche l’algoritmo degli I like, delle interazioni e delle cerchie riducerà giorno dopo giorno la loro presenza sulla tua homepage.
Torno a casa ubriaca lercia, sono totalmente frastornata, la stanza mi gira attorno come una giostra. Nicoletta si è da poco ripresa dal suo di hangover, mi dice qualcosa ma ricordo ben poco. Ah, ecco, mi dice che Tamish vuole essere svegliato al mattino prima che io parta – tipo alle cinque – poi al mattino quando lo sveglierò mi darà il foglio con l’ultima bolletta da pagare. Che tenero.
Ho lasciato a Nicoletta alcune mie cose, ho cercato di alleggerire lo zaino il più possibile. Le cose più pesanti sono il mio portatile con tanto di tavoletta grafica e la reflex. Prossimo viaggio lascio la macchina fotografica a casa. Proprio non mi piace scattare fotografie. Non ha senso, visto che su internet ci sono milioni di foto uguali alle tue. Per i momenti intimi, quelli unici che non trovi su Google, non mi va di interrompere il momento facendo foto. Poi tanto al massimo c’è qualcuno con il telefono con più megapixel del mio che mi taggherà da qualche parte. E se ti metti a fare foto alle feste non ti godi il momento e hai sempre il pensiero di questo ingombro. E poi, come fai a ballare e a pomiciare con la macchina fotografica al collo?

Salgo sul pullman, trafelata, emozionatissima. Si parte. Prima tappa Canberra, poi Goulbourne. In direzione del niente.

lunedì 16 giugno 2014

Mi taglio i capelli da sola.


Mi taglio i capelli da sola guardando un tutorial su Youtube. In pratica ti devi fare la coda di cavallo bassa e cominci a tagliare due dita dall’elastico, in modo che non vengano troppo corti. Avrei potuto fare un video a mia volta per mostrarvelo ma non ci ho pensato. Erano tutti rovinati, li avevo colorati di rosa un casino di volte, poi ero ritornata del mio colore, sempre acidi sono. Zac, e passa la paura. Erano parecchio storti, ma che importa, sono in Australia, e poi la Cate è recidiva a questo tipo di cose. Alle superiori, un pomeriggio, a casa di un amico, in due mi avevano tagliato i capelli, uno con le forbici da carta e l’altro con quelle da pesce. Erano venuti storti anche allora. Aggiustandoli da me mi ero alla fine rasata le tempie, tenendoli corti dietro. Vabbè avevo 16 anni, ero carina lo stesso, con la giacca di vellutino rosso porpora comprata in un mercatino di Amsterdam, sbaccolata qua e là, di due taglie più grande della mia misura.
Quella sera al lavoro, due miei amici mi fanno una sorpresa e mi vengono a trovare. Sono Marco e Luciano, uno di Roma, l’altro di Palermo. Rimaniamo che facciamo una birra insieme quando stacco.
C’è un pub carino all’angolo di Elizabeth street, il Workshop. Elizabeth street, quanti ricordi. È stata una delle prime vie che ho sentito nominare. Ok, è una delle vie principali, la coronaria che unisce la periferia al centro, ma mi risuona dentro la sua eco, una voce che ha trattenuto i primi scatti del mio arrivo in Australia. Le mappe mentali che ti fai della città e che poi stravolgerai totalmente mano a mano che unisci una via all’altra, ricostruendo i pezzi della città.
Ordiniamo una jug, che poi diventeranno due. Parliamo d’amore, ci piace tanto parlare d’amore. Io faccio un po’ la spaccona, come mio solito, loro lo stesso, credo sia una componente italiana: io di qua, io di là, un mio amico ha fatto questo e quello, una gara piacevolissima a chi l’ha fatta più grossa, a chi ha il racconto più divertente. Marco ha 23 anni e fa il cuoco in un ristorante australiano. Ha la passione per la musica e ogni tanto fa qualche trasmissione in radio, nella stessa Radio Kiss sopra il Lounge, dove lavoro e dove stipiamo la roba da magazzino. Però non ci siamo incontrati mai. Ci dice che da poco ha iniziato a fare anche le pizze. Ha le idee chiare: sta mettendo da parte i soldi per lo student e restare qua. È piccoletto di statura, vestito malissimo anche lui, ma ha uno charme naturale, e una marea di donne, anche se giovane, di tutte le età – nel limite consentito. È vero, come diceva un mio amico, che “a trombare con la bocca sono buoni tutti”, ma conoscendo sia lui che Luciano non ho dubbi che sia vero. Luciano, il palermitano, lavora invece nel marketing, non mi ricordo bene. E anche lui è Mr. Casanova. Sono due amici di Nicoletta, ci siamo conosciuti in giro.
Parliamo, ridiamo, beviamo. È un pezzo che non uscivo, mi va di fare serata, di stare ancora in giro. Nicoletta s’infurierà che faccio tardi con quei due e che con lei non esco mai, ma un conto è prendere la serata come viene e improvvisare, un’altra cosa è impomatarsi tutte e andare in quei postacci con la musica orrenda dove si va a rimorchiare. Mi viene in mente il Bollicine di Misano Andriatico, una volta per ridere ci ho portato la mia mamma e una sua amica, ne avevo tanto sentito parlare quando ero piccola, è per gente che ora ha tra i 40 e i 60 anni e che negli anni ’80 ne aveva un po’ meno. È stata un’esperienza. La cosa era surreale. Le donne sui divanetti e gli uomini come sciacalli facevano le ronde e chiedevano alle signore se volevano bere qualcosa o ballare. L’amica di mia mamma non l’ha presa sul ridere e ha detto che non si è mai sentita tanto a disagio in vita sua.
Detto questo, Marco mi fa, perché non andiamo da me? Sì, dico io. Luciano però ci da buca perché il giorno seguente aveva un meeting e doveva svegliarsi presto.
Prendiamo un taxi perché dopo aver camminato per un bel pezzo i tram avevano esaurito le corse. Marco sta decisamente in periferia e vive in casa con la sua zia quasi ottantenne. Che figata, penso, in quale altro modo poteva capitarmi di finire nella casa di una signora anziana! Era come entrare a conoscenza di qualcosa di intimo e di privato, la vita di una donna emigrata a Melbourne tanti tanti anni fa con le speranze e i sogni forse uguali, forse diversi dai nostri.
È una casetta monofamiliare, pulitissima, con vecchi quadri alle pareti, foto di parenti, nipoti e cugini. Tante statuette senza senso, alcune fatte di conchiglie, altre di ceramica e stoffa.
«Non preoccuparti, parla pure ad alta voce, mia zia è sorda come una campana.»
Marco tira fuori una palla. Pasta per la pizza. Mi fa vedere come la lancia in aria e come diventa larga e fina, lancio dopo lancio. Tira fuori anche un rum e con quello ce ne andiamo in cortile. Ha un pappagallo enorme in una gabbia. È aggressivo, come ti avvicini ti becca.
«Si deve abituare a me, ma io non ho fretta. Sono capace di passare con lui ore e ore finché non imparerà a fidarsi di me.»
Il cortile e bello grande e ci sono alberi di limoni e un reticolato su cui si arrampica una vite. Quando andiamo a dormire facciamo all’amore. Poi al mattino, verso le cinque, prendo il treno per tornare a casa.

Ormai mancano pochi giorni alla mia partenza. Le ultime settimane sono intense e piene di feste. Da una parte sono contenta, dall’altra non ne posso più. Sogno la fattoria dei cavalli, svegliarmi all’alba per curare gli animali, studiare e non sentire volare una mosca. Oddio. Se vado in fattoria sarà difficile. Anyway.
Saluto i ragazzi di Pesaro ma tanto loro li sento sempre su facebook e al telefono anche se non ci vediamo quasi mai. Se penso che Matteo Magi del bar non l’ho visto un solo giorno! Eppure l’ho sentito un casino di volte, al telefono e su whatsapp, lo stesso Colo, Euso. Matteo Magi è un altro numero uno che consiglio vivamente alle ragazze. È un amatore vecchio stile, di quelli che ti riempiono di attenzioni e complimenti, 10 e lode a Matteo Magi. E poi, è approdato qui senza sapere una parola di inglese ma nel giro di poco tempo ha avuto a che fare con Kate Perry e la Formula 1. Matteo Magi, numero uno.
Marchino se n’è andato in Quensland, Giuliano ci diamo un appuntamento prima di salutarci. Appena lo vedo mi dice che deve beccare un tipo. Ok, capito. Un pomeriggio l’avevo aiutato a fare i pacchettini. Non avevo mai visto tanta erba tutta insieme. E avevo conosciuto anche il boss, un vecchio irlandese con pochi denti in bocca, 50 anni portati male, la pelle bruciata dal sole, i capelli gialli e incolti. Ma anche io! Non mi potevo innamorare di un giornalista, di un ricercatore, di qualcuno che ha fatto tre tiri di maria giusto per provare e poi basta? Di qualcuno che non ama troppo bere se non di tanto in tanto?
A Milano (prima di mettermi con un ricercatore!) facevo la cameriera in una spaghetteria di Lambrate. Frequentavo allora – nel senso di amico –  un tipo che tutti chiamavano il Rumenta. Il Rumenta aveva 40 anni, un aspetto poco raccomandabile, spacciava principalmente cocaina. Non aveva il telefono, in modo non farsi beccare, e ogni volta mi chiamava da cellulari diversi. Viveva con sua madre e i suoi problemi respiratori in una casa popolare a Rozzano. L’avevo seguito nei parchi di Milano nel cuore della notte, nelle case di buoni acquirenti che gestivano locali di una certa rendita. Una volta mi aveva detto, col suo accento cantinelante, Bimba, hai presente il tipo di prima? Ecco, dimenticatelo. La settimana dopo era stato accoltellato fuori un bar dalle parti di via Rombon. E lì era morto. Chissà che fine ha fatto, il Rumenta. Quando telefono a Teresa, la mia vicina di casa di allora, mi dice che nessuno l’ha più visto in giro. Si dice sia finito alle Canarie, da qualche amico. A volte penso che non mi sono mai fatta mancare niente. Ogni tanto qualcuno si chiede cosa diavolo ho intenzione di combinare nella vita. Per quanto mi riguarda, la risposta è vivere. Non abbiamo molto tempo, prima della morte. La morte è una realtà concreta, non dico niente di trascendentale, ma nessuno ci vuole pensare. Io voglio godermi ogni singolo istante e dico grazie alla crisi economica che ha impedito che mi trovassi un buon lavoro. Un buon lavoro è come un buon fidanzato, è sempre un’impresa lasciarlo perché anche se non lo ami più e non ti fa più felice il resto del mondo ti dice: cretina. Arrivare. Non c’è fine all’arrivo, è un videogioco a livelli infiniti che ti prende solo la scimmia di superarli. L’unico mio rammarico per il passare del tempo è che ho bisogno di riposarmi più spesso. Anyway.

Sistemata la compra-vendita andiamo finalmente a cena. Giuliano mi lascia scegliere un cinese, credo fosse il primo posto dove abbiamo pranzato. Parliamo tanto, tutta la sera. E io rido, rido da morire, con lui rido sempre da morire. Finiamo poi un un pub, non c’è nessuno, due birre in bottiglia. Ci vorrà un bel po’ prima di rivedersi ancora.

lunedì 9 giugno 2014

Lasciamo Melbourne.

Dopo che i ragazzi tedeschi se ne sono andati, la casa riprende i suoi ritmi lenti. Alicia e Tom si fanno sempre più silenziosi – a parte quando scagnarano – e Tamish è rientrato dai suoi dieci giorni di meditazione intensiva, vale a dire senza telefono, senza alcool e sigarette, ma soprattutto senza rivolgere parola o sguardo agli altri del gruppo.
«Come è andata?», gli chiediamo io e Nicoletta appena lo vediamo. Magnificamente, ci risponde, è stato stupefacente. Continua con l’elenco degli aggettivi, tra l’altro una cascata di sinonimi, e non riesce a spiegarci cosa ha reso “incredibile” la sua avventura.
«Una sigaretta ce l’hai?»
«Ma, Tamish! Sei appena rient… »
«Shout up, d’accendere?»
Tamish spende 20,000$ all’anno in meditazione eccetera. Telefona al suo guru, di tanto in tanto, e anche questo gli costa una fortuna, perché il caro maestro si fa pagare al minuto. Sarà la vicinanza con l’India – sicuro –, fatto sta che gli australiani sono parecchio dentro la questione spirituale. E mi viene in mente Pasolini e i suoi Comizi d’Amore, di quando andava per le strade a intervistare gli italiani sul problema del sesso. Le risposte che ho ascoltato sono state abbastanza sempliciotte e approssimative, non troppo distanti da quelle di tanti cattolici nostrani. Ma al problema spirituale ci arriveremo più avanti, quando approderò a Sydney nel cuore di un tempio Hare Krisna. Melbourne, a parte il mio housemate, se la vive apparentemente più easy.
Finita la sigaretta, Tamish mi allunga un foglio con i calcoli di affitto, bollette eccetera. Da una rent mensile che sarebbe dovuta essere 800$, arrivo a pagarne 950$. Col lavoro che faccio non me la posso più permettere. Decido così, in un caldo pomeriggio di mare sulla costa di Mornington, che è il caso di lasciare Melbourne e di proseguire la mia avventura da qualche altra parte.
Ho ancora un mese da passare qui. Sono un po’ esausta, a dire il vero. Il lavoro mi ammazza, Nicoletta si trasferirà presto da me, non voglio vivere con un’italiana e poi, con lei vicino, il mio tempo libero non esisterà più, perché diventrà il suo tempo libero. Significa che mi farà prendere un po’ di sole, che di mio me ne starei chiusa in casa riversa sulle grammatiche d’inglese.
Facendo un riepilogo di questi primi tre mesi dico che sono stati grandiosi: ho conosciuto un sacco di gente, ho imparato mestieri e parole nuove, mi sono decisamente divertita e ho valutato diverse opzioni di sopravvivenza. Sugli incontri, i migliori sono stati sul tram. Sarà scritto nel mio karma, avrò una faccia di quelle che stimolano la conversazione, non lo so, ma le persone mi parlano senza che io faccia niente. L’inglesino di 21 anni in mdma sparato, un tedesco di 27 che cercava lavoro, due giapponesi che facevano i cuochi, una suora che parlava dieci lingue, un padre con suo figlio sedicenne, il tipo dei biscotti di maria – quello vabbè, l’avevo conosciuto a una festa – e altri che non ricordo ma che sicuramente sono esistiti.
Sempre della categoria “conoscere gente”, se non capita per caso, ripeto, per cominciare il couchsurfing è un valido supporto. Avevo partecipato a un paio di serate in birreria dove altri viaggiatori come me si incontrano per scambiare due chiacchiere e conoscersi. Io avevo la punta con una ragazza olandese che aveva scritto sulla bacheca di couchsurfing “cercasi amica disperatamente, vivo con cinque uomini, ho bisogno di parlare con una ragazza!”, ed era stato carino che altre ragazze si erano unite a noi quella sera, finita con una bella sbornia e qualche tiro di canna. Questo comunque è stato all’inizio, quando vivevo con Giuliano e mi trovavo nella sua identica situazione. Poi è stato buffo che un pomeriggio me la ribecco in Albion street. Anche lei viveva lì, incredibile. Ci siamo promesse una cena che non c’è mai stata, e da quel giorno non ci siamo più riviste.
Sulla sopravvivenza invece, quando sei in cerca di lavoro o di come raccimolare qualche soldo, sei come una lepre pronta a scattare al minimo sussulto. Avevo sentito che se donavi il sangue per la ricerca sul cancro ti davano 30$, però potevi donare non più di una volta al mese – erano sempre 30$!; fare la modella di nudo per un privato – la paga era buona anche se adesso non me la ricordo; fare i massaggi in bikini – di questo manco a parlarne, anche se ho una cara amica che lo fa da parecchio tempo, e aggiungo, con le mie misure non mi prendevano sicuro.
Com’è andato il capodanno?
«Nicoooo! M’ha scritto Giuliano!», lo sapevo, lo sapevo che mi pensava!
Ok, siamo d’accordo, era un bloody messaggio su come ho passato le feste, che però mi aveva fatto fare salti di felicità lo stesso, visto che non ci eravamo più sentiti. E poi, se vuoi bene a qualcuno, ti si allungano gli angoli della bocca solo a sentire tintinnare il suo nome.
E comunque, non è che fosse cambiato qualcosa.
Più passavano i giorni, più mi esaltavo all’idea di partire. Il piano era di fare woofing in qualche fattoria, che significa lavorare non più di 4, 6 ore al giorno in cambio di vitto e alloggio. Ovviamente non sono lavori pesanti, però dipende sempre dove vai. Io avevo trovato una fattoria che allevava i cavalli da corsa. Greg e Tony erano i titolari, a giudicare dai nomi mi ero prefigurata due fratelli o una coppia gay, invece erano marito e moglie. Sì perché non era Tony ma Toni. Il sito web faceva pensare a un posto davvero fico. Mi ero immaginata un’immensa scuderia immersa nel verde, con tutti quei cavalli e io, come Heidi, gozzovigliare tra le balle di fieno.
Comunque avevo scelto l’opzione woofing per due importanti motivi: la mia mano destra con la sua orribile sindrome del tunnel carpale – sapete com’è, faccio l’illustratrice! –, e dedicarmi allo studio. Va bene l’inglese imparato parlandolo, ma non è uguale se ci applichi le sue belle regoline, fai l’orecchio a diversi generi di scrittura e scrivi. È come mettere una canna di bambù a sostegno della piantina che cresce, così viene su diritta.

E poi chissà, magari ribecco pure lo scozzese! Sydney non mi ispirava granché, sono stata per lungo tempo una paladina di Melbourne, e invece mi sono ricreduta.

domenica 1 giugno 2014

Come si dice "mi piaci" in italiano?

Poi la sera rientrando in casa, due ragazzi tedeschi escono dalla camera di Tom e Alicia.
«Abbiamo conosciuto Tom e Alicia in campeggio. Tom ci ha detto che possiamo fermarci qui qualche giorno. È stato proprio gentile, anche se era ubriaco quando ce l’ha chiesto.»
Avranno su per giù vent’anni, lungagnoni e spalle larghe, uno è così biondo da avere le ciglia quasi bianche, l’altro ha gli occhi verderame e i riccioletti castani. Io e Simona senza nemmeno guardarci pensiamo la stessa cosa.
Facciamo subito amicizia. Sono patiti di motocross, ci fanno vedere le cicatrici che hanno sulle braccia, sul petto, sulle spalle. Il biondo, che dice di avere 24 anni, sa chi è Fabri Fibra e ha una sincera venerazione per Valentino Rossi. Capirai, ragione in più per diventarmi amico, visto che sono di Pesaro. L’altro, silenzioso, gli occhiali da dentista, la camicia infilata in pantaloni della giusta taglia, bella cintura, ha 19 anni soltanto. Anche loro sono due WHV che come me si sono buttati in questa avventura. A differenza di me però questo è il loro secondo anno e viaggiano su un furgone.
La notte è limpida e profumata, ci sono un sacco di stelle nel cielo. Dopo essere stati da Nicoletta e avere finito ufficialmente gli avanzi delle feste, ce ne andiamo in veranda da me. Tom e Alicia se ne vanno a dormire e restiamo noi quattro.
Si crea un’atmosfera che mi catapulta dritta nel ricordo di qualche pagina di Jules et Jim, di quando, prima di innamorarsi entrambi follemente di Catherine, i due oziano di salotto in salotto, temporeggiando l’esistenza con aforismi, oppiacei e belle scopate occasionali.
Ci raccontano così le loro mille avventure, brillantemente: del lavoro nelle farm, degli strani personaggi incontrati in giro, della Gemania, del vivere sempre come viene.
«Come si dice mi piaci in italiano?»
Eduard ha gli occhi di un azzurro ghiaccio che vibrano per intelligenza e un briciolo di spacconeria.
«E in tedesco, come si dice in tedesco?»
Le ore più si fanno piccole più si mangiano la notte, così ce ne andiamo a dormire con la promessa di passare del tempo insieme il giorno dopo.

Quella mattina lavoro, così ci incontriamo in cbd nel pomeriggio. C’è anche Tom con noi, mi fa piacere, non ne so abbastanza da fare da Cicerone e addirittura Simona ne sa più di me, che era venuta a visitare Melbourne tempo prima. Ma sapete, quando lavori non ha tempo di girarti la città e quando sei off sei così stanca che ti vuoi riposare, senza dire che devi fare il bucato, la spesa, tutte quelle cose per prenderti un po’ cura di te.
Ci prendiamo una birra in un posto fichissimo che si trova nel bel mezzo del fiume Yarra che serpenteggia un paio di volte prima di sfociare nel mare. È un punto parecchio turistico, s’immagina, ma la birra costa come dalle altre parti. I backpeker sono poveracci per definizione, specie gli europei. Avevo fatto amicizia con una ragazza cinese in fabbrica, un amore di ragazza, ecco lei per esempio aveva preso la casa vicino alla fabbrica con altre ragazze cinesi, in camera doppia, lavorando mesi e mesi senza sosta e guadagnando però un sacco di soldi. Ecco, per me non ha senso campare così, visto che se vuoi ti diverti – tanto! – con niente, specie se non fumi, non usi droghe, bevi poco e ti accontenti di avere dieci magliette in tutto.
A parte questo, decidiamo di fare un po’ di spesa e di improvvisare un barbecue per la serata. Si fa presto, Alicia telefona ad alcuni amici, che dicono subito di sì senza pensarci troppo, non come in Italia che devi fare l’evento su facebook una settimana prima, dove gli stessi che si lamentano che non c’è mai niente da fare sono oberati di impegni e non sanno se riescono a liberarsi.
Comunque, nel giro di poco tempo, la casa si riempie: ci sono gli amici di Tom e Alicia, Nicoletta e i suoi housemates, gli amici di Eduard e Ferdi.
Il bello di Alicia e Tom è che sono due fuori di testa. Lei, siccome le piaceva l’idea di fare la dj, s’è comprata un impianto sfacciatissimo e le luci stroboscopiche; lui la segue fedelmente in ogni sua follia e in men che non si dica il salotto è diventato un club, con tanto di birre gelate da prendere direttamente dal frigo.
Julia è un’amica di Alicia e in passato aveva lavorato come spogliarellista. È una ragazza acqua e sapone, magra come un giunco di palude, senza seno, 22, 23 anni, lo non diresti mai. Ci andrò poi a casa sua, un appartamento bellissimo in piena Fitzroy, con un pianoforte, le finestre alte ottocentesche, e un palo che scende dal soffitto sul quale si arrampica e si attorciglia ogni tanto. Vive con Claire la ragazza di Eduard. Lei e Eduard si erano conosciuti anche loro in campeggio e avevano dormito insieme. Lei però è arrivata dopo alla festa, intanto sono successe altre cose.
Julia, dicevo, a un certo punto s’è tolta il vestito ed è rimasta in mutande. È finita che siamo rimasti tutti in mutande. Non credete, non c’era niente di strano in quel gesto, tanto meno di lubrico: era semplicemente estate, c’era la musica e i grilli, buona musica e forse sì, qualche birra di troppo. Oddio, c’era sì un po’ l’atmosfera de Il tempo delle mele, i baci rubati, gli abbracci, ma tutto restava tremendamente innocente. Credo fosse lo spirito che c’era in ognuno di noi, cantavamo il nostro inno alla bellezza. Avevano tutti poi poco più di vent’anni, io forse l’unica di 30.
Poi c’è stato un momento incredibile sull’istante, imbarazzante il giorno dopo e divertente adesso che ci ripenso. Ad un tratto Eduard viene da me e mi dice che piaccio tanto al suo amico, e io, ammorbidita dall’alcool e dai suoi occhi di ghiaccio così difficili da evitare, gli dico che no, non c’è storia, mi piaci solo tu, o tu o nessun altro. Sorride e da vero gentleman mi da un bacio sulla guancia, con Claire che stava seduta lì vicino e si era vista tutta la scena.
Evabbè amen. Vado da Simona e le racconto l’episodio, e ovviamente ride da morire. Poi ad un tratto sparisce anche lei. Eduard e Claire si sono chiusi in camera, nella mia di camera ci stanno tre persone che non ho capito chi. Mi rimetto la maglietta e con un avanzo di pane e patate mi siedo per terra a mangiare. Nicoletta è alle prese con Brad. Si mettono a litigare, lui la offende dicendo che quello che c’è stato tra di loro è ormai polvere, così lei mi prende per il braccio e mi porta a dormire a casa sua.
Le due case continuano intanto a ospitare i set di Beautiful. Due coppie si sono più o meno stabilizzate, come negli acquari naturali che se aggiungi un elemento nuovo tutto l’ecosistema si sballa. Le coppie sono Eduard e Claire, che profumano d’amore a un chilometro di distanza, e… Simona e Ferdi. Sì, lei ce lo conferma, niente di che, lei ha 28 anni, lui 19 e non è mai stato con una ragazza. Si sono scambiati qualche bacetto e hanno dormito abbracciati. Siamo di nuovo in camera di Nicoletta a tirare le somme della serata. Nell’altra stanza gli amici del metal stanno fissi davanti la tv, vampirizzati da un videogioco. È l’ultimo pomeriggio, ognuno è per tornarsene a casa, gli entusiasmi si sono intiepiditi.
Simona prenderà il suo volo per Perth, al lavoro chiedo al mio capo com’è andato il capodanno. Lui mi dice che è stato una porcheria, né droga, né troie a St. Kilda.
A casa c’è rimasto solo Ferdi perché Eduard s’è trasferito da Claire. Finalmente ho un po’ di tempo per riposarmi, per studiare un po’, mi dico, quando sento ticchiettare sulla mia porta.
«Facciamo qualcosa?»
Ferdi mi rivolge lo sguardo pigro di un ragazzino che è stufo di fare i compiti. Evabbè, mi dico, sarà un’occasione per allenare il mio inglese, anche se ho solo voglia di stare a casa.
Incontriamo un paio di suoi amici che erano alla festa la sera prima. Il ragazzo che aveva chiesto di me a Eduard si vergognava, così ci ha messo del tempo prima di guardarmi in faccia, e io ovviamente ho fatto di tutto per sdrammatizzare. Siamo in un centro commerciale, Ferdi cerca un paio di pantaloni, dice che non vuole spendere ma ogni volta si indirizza sulle linee più costose. Vai in un negozio di seconda mano, gli dico. Sbuffa annoiato, però domani facciamo qualcosa, non come oggi. Non sono mica tua madre, mi sfugge, io lavoro, non ho tempo di portarti a spasso. Apriti la guida e studiati le cose che ti piacerebbe fare.
Eduard, Claire e Julia ci aspettano in un bar a Fitzroy. Ci scambiamo sguardi di imbarazzo, io e Claire, ma poi rompiamo il ghiaccio. Sia lei che Julia sono due ragazze strepitose. Entrambe studiano teatro, Julia come attrice, Claire come sceneggiatrice. Claire ha pubblicato già un’opera, in biblioteca, dice, Eduard pesca un libro ed era il suo. Incredibile, no? Sarà stato il destino.
Ormai sono sciolta, do il meglio di me, Eduard si diverte e facciamo i cretini. Lui mi sfotte per il mio accento italiano e fa la mia imitazione, io ricambio e tutti ridono. Cambiamo bar, io racconto alcune delle mie tante storie, faccio sempre la parte del marinaio con la sua bella scorta di leggende e riti e magie apprese dalla strada.
Finiamo in un club con bella musica dal vivo. L’ambientazione è stile hawaii, con le palme di plastica e il personale con le collane di fiori al collo. Io sono vestita male come al solito, ho una maglietta nera con lo scheletro della cassa toracica disegnata (che avevo comprato al museo della Scienza e della Tecnica a Londra), la camicia a scacchi e i jeans. Faccio ballare dame e damerini, di tutte le età, anche un vecchietto vestito di bianco con il panama in testa. Da quattro che eravamo a ballare in mezzo alla pista diventiamo prima dieci e poi venti. A Ibiza facendo così mi avevano offerto un posto di lavoro. Tutti si divertono un casino, mi piace fare il giullare di corte, Claire e Julia mi guardano con ammirazione. Julia mi chiede di trovarle un ragazzo. Per quanto sia bellissima, è giovane e insicura, assomiglia terribilmente alla ragazzina che ama Woody Allen in Manhattan. Le dico che so quello che ci vuole per lei. Corro in mezzo alla folla danzante, scovo un bell’ombroso coi capelli lunghi in piedi all’angolo (in piedi agli angoli a volte ci stanno i migliori). Lui s’incazza sul momento, pensa che lo prendo per il culo, finché non spunta tra le teste la manina di Julia che saluta nascondendo un sorriso. Parlano, ma lui non ha ben chiara la situazione e molla. Ok, stavolta m’è andata male, ogni tanto sono brava ad accoppiare le persone.
In pista riprendo a fare la scema e mi inginocchio ai piedi del palco, con la mano sul cuore, guardo il chitarrista e gli dico più volte “I love you”, e sbatto le ciglia, con tutti gli altri che se la ridono, gli strappo un sorriso sghembo, intanto che mi guarda stranito.
Niente, finisce che scherza che ti scherza, finito il concerto, il chitarrista si fa largo in mezzo alla folla e mi cerca. Tutto è molto romantico, come nei film, mi guarda da lontano, si avvicina lentamente. Balliamo un po’ con le fronti attaccate (e intanto penso, ma pensa tu!) e alla fine mi bacia. Si è fatto tardi, i ragazzi decidono di andare. Gli scivolo via tra le braccia e corro di fuori esultante.
Dormiamo tutti a casa di Julia e Claire. La casa ripeto è antica e meravigliosa. Poche cose ma di valore. Una libreria tarlata ospita vecchi tomi enciclopedici, poi un pianoforte, due bei divani, e questo palo d’acciaio che scende dall’alto.
Al mattino mi sveglio presto, saranno circa le 7. È il mio day off e non ho fretta, ma mi piace andarmene da sola senza svegliare nessuno e camminare per conto mio per la città.

lunedì 26 maggio 2014

L'è nata poca donna.


È difficile sentire l’atmosfera natalizia con 28 gradi là fuori, specie se hai appena fatto il tuo primo bagno nell’oceano. Il sole è cocente a Melbourne, ci sono giorni che è meglio restare in casa. Non è ancora piena estate, il culmine arriva a febbraio dove si raggiungono i 40 gradi. È un caldo asciutto, non mi da fastidio. La sensazione è quella di un mega fohn che spara interrottamente aria calda sulla città. In verità, in quanto a clima, Melbourne è lunatica. Esci di casa la mattina presto fa un caldo boia, decidi quindi di andare in spiaggia ma piove un po’ e ti tocca tornare a casa e metterti la felpa. Comunque, pare che sia così un po’ tutta l’Australia, per lo meno sul versante orientale. Il problema del tempo attanaglia tutti, come in Inghilterra; e visto che l’80% del sangue australiano è anglosassone, mi vien da dire, saranno forse gli inglesi a portare un po’ sfiga?
Ritornando al Natale, dai vicini intanto, oltre il cancello, è successo un putiferio.
Galeotto fu un bloody alberello con pallette colorate e un babbo natale seduto sulla cima dell’abete, sì, proprio al posto della cometa, o come meglio preferite, un babbo natale con l’alberello infilato, non so perché e a chi sia venuta in mente un’idea del genere, comunque. Il punto è che da sopra il tavolinetto del tavolo dove era, il babbo-albero o l’albero-babbo finisce in cortile, vicino ai bidoni della spazzatura.
«Brad è un metallaro di merda!»
Certo, solo un metallaro può impazzire in quel modo di fronte a babbo natale. È sicuramente colpa dei suoi gusti musicali, che fanno un tutt’uno con il suo stile di vita, i suoi credo, la sua concezione dell’universo. Anche se, per quanto Nicoletta sia mia amica e penso che Brad abbia esagerato, intimamente lo appoggio. Per fortuna gli altri coinquilini, metallari anche loro, non hanno aperto bocca sulla questione del babbo-albero, Dan perché non parla proprio, Roy perché non esce mai dall’oscurità della sua cameretta, se non per mangiare gli avanzi dei super abbondanti pasti che prepara Nicoletta da brava siciliana. E sempre da brava siciliana, intanto che cucina e lava, si lamenta che nessuno fa niente in casa. Una settimana a Natale, la ragazza del sud appronta il suo piano di guerra.
«Stellaaaa!!!», mi urla che sono a un metro da lei per attirare la mia attenzione e come un vecchio bacucco il più delle volte non le rispondo. Vuole che la aiuto a preparare il menù. Per me pasta, vino e panettone e Natale è bello che pronto.
«Ma che sei impazzita?!!!».
«Nicolè, fa come te pare, io spingo il carrello, va ben?»
Sono brava ad ascoltare e a dare buoni consigli alle amiche ma, per carità, non chiedetemi se è meglio la tovaglia con le renne o quella con i fiocchi di neve, se l’albero-babbo n. 2 sta meglio sul tavolinetto, al posto del l’albero-babbo n. 1, o per terra vicino all’entrata. Ho risposto che per me può star bene vicino ai bidoni, come l’albero-babbo n. 1, ma non la faccio ridere.
Poi mi fa ascoltare la playlist delle feste. Conosco Nicoletta e la sua musica bella zalla, come dice lei stessa. Obietto solo che visto quello che è successo all’albero-babbo, Ai seu te pego, Macarena e Cecerece suonano come una dichiarazioni di guerra, ma lei ribatte che quelli sono dei mentecatti, che già che c’è da mangiare gratis stanno a posto.

Il 24 dicembre lo passo quindi con Nicoletta e i nuovi amici, il 25 barbecue a Mornington con gli amici di Pesaro – che finalmente riesco a beccare dopo un’era zeologica che non ci si vede –, capodanno di nuovo con Nicoletta e Simona, un’amica di Vicenza da poco a Perth che non vuole passare le festività da sola. Giuliano non lo sento da un po’ invece, la sua ragazza s’è ingelosita e non vuole che passiamo le feste insieme. Ci mancherebbe, non mi metterei mai in mezzo a una storia, sono sempre stata corretta, l’ho solo sfiorato, infinite volte, col pensiero.

La notte del 31 c’è un sacco di gente a casa dei vicini. Tutti sono tranquilli e sereni, la cena ottima, conosco un ragazzo di Brisbane di nome Tim. Magrolino, biondino con la barbetta, sembra Curt Cobain, è professore di recitazione all’Università e ha solo 25 anni. Io mi faccio presto ubriachella, è carino, mi accorgo che gli piaccio. Le ragazze sono tirate a lucido, truccatissime, i ragazzi pure, alcuni giacca e cravatta addirittura. Io sono sempre il solito animale, se c’è da andare a ballare jeans e scarpe da tennis, specie a capodanno, perché non si sa mai come e dove si va a finire.
«Che dici, ce ne andiamo a Edimburgh Park?»
Un casino di gente quella sera andava a Edimburgh Park, mi arrivano sms di amici diretti lì.
Chiedo un po’ in giro, Nicoletta vuole rimanere a casa con gli altri, sono tutti ubriachi come cenci, io e Simona ce ne andiamo e Tim e altri ci vengono dietro. Camminiamo una cifra, ma quando sei brillo non ci fai caso, specie se non fa freddo e sei in compagnia. Un uomo in bicicletta con una canna in bocca si ferma e ce la offre. Io e Tim ci baciamo. Prendiamo un tram, io e Tim vicini, gli altri dietro di noi che ci sfottono.
Edimburgh Park è un delirio! Si sente pompare la musica elettronica dalla strada, musica come si deve, minimal da Cocoricò (#benedettosiasempreilcocoricò), c’è un fottio di gente, Tim mi tiene per mano. Simo urla, la folla ci risucchia. Un ragazzo mi prende il braccio e mi trascina via, mi vuole baciare – ps: è in md’ sparato – ma c’è Tim che mi riprende e mi chiede se voglio andare via con lui.
No, non se ne parla. Gesù, è capodanno! E mentre lui se ne va, io e Simona saltiamo come grilli in mezzo a quel casino sprizzante di gioie chimiche. Per terra ci sono bottiglie e bicchieri di plastica. Mi guardo intorno per vedere se incontro qualcuno che conosco ma c’è troppo delirio, e poi è buio, non si vede niente.
A una certa decidiamo di tornare a casa. Il pellegrinaggio Macerata-Loreto che avevo fatto da ragazzina era stato meno straziante. Gli autobus e i tram passano a babbo morto, tutti sono ad aspettare i taxi, i taxi a Melbourne fanno schifo, hanno regole tutte loro, se tu non vai nella loro direzione non ti caricano, è peggio che a Roma. Almeno io e Simona stiamo comode, ci sono torme di ragazze ai bordi delle strade che si trascinano sui tacchi come vacche zoppe.
Siamo a Fitzroy e ci facciamo Brunskwick Road avanti e indietro un paio di volte. Non fatevi ingannare dal nome della via, anche se si chiama come il mio quartiere sta tutta da un’altra parte. Ci sediamo sul ciglio della strada ad aspettare. Mi telefona Genna, «Cate, ma dove sei?». Gli dico della serata, si fa due risate «ci sei mancata, maledetta, ma perché non ci raggiungi?», «Giuliano non è con voi? La sai la storia, no?», «No, è con la tipa, tranx», ma io e Simona siamo letteralmente morte e, visto che poi i taxi non passano, non c’è modo di muoversi in alcuna direzione se non a piedi.
Grazie al cielo alla fine ne troviamo uno.
Fa un freddo cane e come arriviamo a casa ci nascondiamo sotto le coperte. È stata una bella serata, mi sono proprio divertita tanto. Mi chiedo come è proseguita la festa a casa di Nicoletta, tra i balli di gruppo e la sangria.

La mattina siamo di nuovo da lei. Colazione insieme e poi tutte sul divano a raccontarci i gossip della serata. Una coppia ha litigato, Nicoletta s’è sbaciucchiata uno, Chiara, la ragazza che aveva seguito me e Simona a Edimburgh Park, è finita a letto con un tipo, Brad e altri metallari a una certa si sono chiusi in camera e hanno fumato tutta la notte. Sentiamo casino al piano di sopra, si sono svegliati pure loro. Giornata post-capodanno, cinque ragazzi contro cinque ragazze. Sì, fate bene a pensare male, ma di base nessuno conclude niente con nessuno, sembra di stare dentro a una sitcom dove A ci prova con B che vuole C che è indeciso tra A e D, allora anche E pensa che A non sia male, eccetera, un puttanaio insomma, dove io sicuro sono Z che proprio, proprio non ne voglio sapere niente. E a forza di lettere che si incrociano mi viene nostalgia di risolvere in santa pace uno schema di Bartezzaghi.