lunedì 28 aprile 2014

L’inglese è una lingua stronza.


Sono trascorsi all’incirca dieci giorni dal mio licenziamento e grazie a Nicoletta ho già un nuovo lavoro.
Esattamente quello che avevo chiesto all’Universo: part time, in centro, gestito da australiani, tutti ma proprio tutti che parlano inglese, ambiente friendly. Nicoletta conosceva un capo cuoco in cerca di un kitchen-hand e io ero arrivata al momento giusto.
Premetto, il kitchen-hand non è proprio un lavoro da donna. C’è da fare il delivery – ovvero trasportare sacchi di chili di roba dalla strada al magazzino per tre rampe di scale –, lavare quintalate di piatti, sgrassare teglie e pentoloni, e ripulire ogni sera una cucina unta più di un cadavere ai tempi di Gesù. E poi preparare i petti di pollo, le insalate e una specie di palline appiccicose, ma dei piatti ne parliamo dopo.
Aaron, il capo cuoco, è israeliano. Mi chiede di mostrargli i muscoli del mio braccio, ma è chiaro che scherza. Comincio subito. In cucina ci sono Barati del Nepal, Nick della Nuova Zelanda, Hanna dell’Inghilterra e Keval dell’India. Ok, lo so, anche qui tutti stranieri ma l’inglese lo parlano bene, per quanto gli accenti sono tanti e tutti differenti e io stessa ho ancora tanto da imparare.
Ho scritto tempo fa in un post di facebook che ogni tanto mi aiutavo con le onomatopeiche: è vero. Non capivo tanto all’inizio. Era diverso leggere un libro comodamente a casa, chiacchierare con gli ubriachi nei pub eccetera. L’inglese è una lingua stronza. Dicono che è semplice i tedeschi, i nord europei e chi non la conosce bene. Solo to get per conto suo incute timore; senza accollargli poi i vagoncini di in, to, at, for, fino ai mostruosissimi phrasal verbs, anche se, dopo un po’, quando impari a familiarizzare con le preposizioni, si apre un universo di combinazioni fantastiche che la lingua italiana non ha. L’italiano ha un vocabolario che lascia poco spazio agli equivoci, una parola vuol dire quella cosa lì e basta. Significato e significante sono per la monogamia, fedeli come colombe, sono rari i casi di tradimento coniugale. In compenso c’è molta più libertà nella composizione della frase; e laddove l’inglese si irrigidisce, l’italiano fluisce acquoso, gioca a cambiare posa, fa un dispetto solo per vedere l’effetto che fa.
«AS WELL a me piace la musica elettronica AS WELL.»
«È meglio che non usi quel coltello AS WELL, se usi quest’altro preferisco AS WELL.»
Non ho mai sentito tanti as well tutti insieme. Nell’inglese scritto non si usa così tanto e comunque doveva essere anche colpa di Barati, il cuoco nepalese: ci inzaccherava un po’ tutto, come faceva col coriandolo che ci mancava poco lo mettesse nel caffè as well.
Ma che vuol dire as well?
Significa anche.
Non è sempre vero però, perché in certe frasi anche non mi dice niente!
Ah, ecco: significa anche ma può essere svuotato del suo significato per intercalare.
Ho capito. Quindi deduco:
As well sta all’inglese, come tambien sta allo spagnolo, come diobò sta al pesarese.
Soddisfatta mi rimetto ai miei doveri.
Non saprei dire se preferivo lavorare al mattino o alla sera. Al mattino si cucinava e alla sera si lavava. Forse lavare mi lasciava più libertà di passare da un pensiero all’altro, di sviaggiare in generale. E non mi erano d’aiuto solo i gesti ripetitivi dello sfregamento spugna in mano ma anche la musica elettronica di sottofondo e l’eco delle ordinazioni.

Chicken Parma.
È in pratica la nostra cotoletta, petto di pollo impanato, non con il pane però, con una specie di segatura cinese. Il mio compito era insabbiare i petti di pollo nella farina, poi nelle uova sbattute e infine nella segatura cinese. Venivano poi fritti e passati al forno con una fettona di prosciutto cotto (un fake di prosciutto cotto) e il formaggio, il tutto bagnato in ultimo con la salsa di pomodoro.
Gusto 6, Pesantezza 10
(voto 1-10)

Pizza Ball e Mac Cheese.
Un essere umano prima di me doveva aver scotto la pasta fino a ridurla in poltiglia, per sfaldarla ancora in una salsa di pomodoro e formaggio. A me arrivava una teglia con uno strato solido e gommoso, spesso due dita, da tagliare con il coltello a scacchiera per poi fare di ogni quadratino una pallina. Tutto in frigo e alla fine bagnetto al tuorlo e segatura cinese. Anche loro, le bimbe, venivano fritte.
Gusto 5, Pesantezza 10

I nomi dei panini non me li ricordo. Non erano male, c’era la carne di manzo dentro o di pollo, i peperoni scottati e tagliati a lunette, formaggio fuso e salsine, accompagnate dalle fries o dalle wadges, patatine fritte lungiformi le prime, taglio da patate arrosto le seconde. Ottima la bistecca, di cui mi sfamavo ogni santo giorno, servita con le patate saltate in padella con la buccia, i fagiolini e una pannocchia alla brace.
Per più di due mesi ho mangiato sempre bistecca e ora sono tre mesi che mangio esclusivamente vegano. Fisicamente non ho notato differenze, a parte che il vegano gonfia e la prima mi faceva acidità. Meglio di tutto è quando sto a casa mia. Ma in giro ti arrangi con quello che c'è. Quando mi viene chiesto se sono vegetariana io rispondo “un po’”, che è come quando ti chiedono se sei fumatore, e in teoria fumi o non fumi, ma che fare di tutte le eccezioni? Dei due tiri di sigaretta dopo cinque boccali di birra?
Non sono fumatrice. Ma a me la rosetta con la mortadella ogni tanto mi ci va proprio, anche se evito di comprare la carne al supermercato, sia per le povere bestiole sia per le schifezze che gli danno. Mia sorella è un po’ più fiscale, ma quando alla Pesca del Palio dei Bracieri della mia città ho vinto mezza gamba di prosciutto, dopo averla spartita un po’ con gli amici, in una settimana, io e la mia consanguinea, ne abbiamo morsicato anche l’osso.


sabato 19 aprile 2014

Il Principe Azzurro, detto anche +1 da Giuliano


Bello come il sole, anzi come Ewan McGregor. Mozzafiato di faccia, di corpo, di sedere.
Sì che ci sono andata a letto, e adesso ve la racconto per benino.
Allora, tutto comincia quando scopro che ho una vicina di casa italiana. Accidenti, mi dico, ho cambiato appartamento apposta per non stare con gli italiani!
Però avevo un bisogno disperato di un'amica, una ragazza intendo, ero perennemente circondata da ragazzi maschi quindi niente chiacchierine, tisane, "amorino", "stella" ma Playstation, droghe, "oh vecchio", "hey bomber".
In pratica Tamish la invita da noi per vedere la camera di Alicia e Tom, casa sua presto sarebbe stata venduta. Si chiama Nicoletta, è siciliana, 23 anni, carina e sveglia. Colpo di fulmine, ci scambiamo i cellulari, il giorno dopo mi invita da lei a bere un caffè. Scavalco il cancello davanti il mio portone, non mi prendo nemmeno la briga di fare il giro. La villetta dove vive è da capogiro: immensa, cucina come quelle dei cataloghi, tre divani, mega televisore. Buia forse, ma non perché non ci siano finestre grandi a sufficienza, ma perché Brad, Roy e Peter sono tre metallari e amano vivere nell'oscurità. Un giorno Brad e Nicoletta litigheranno amaramente per gli addobbi di Natale, ma ve lo racconterò più avanti. Chi ha avuto la pensata di comprare un alberello addobbato con le renne e le campanelle e di piazzarlo in sala secondo voi?
Anyway, dal caffè le chiacchiere si involano come i piccioni di Piazza San Marco, e finiamo col fare tardi. Abbiamo la gola secca e tanto ancora da dirci così saliamo su un tram e ce ne andiamo in CBD. Qui becchiamo un gruppetto di altri italiani che Nicoletta aveva conosciuto una settimana prima non mi ricordo dove. Vengono dalla Sardegna, inglese zero. Uno di loro è di Porto Sant'Elpidio e quando gli dico che sono di origini maceratesi si illumina d'immenso: "te pijasse un corbu, finalmende chi'du che me capisce quannu parlo".
Ci spostiamo in un locale per una birra. Non c'è tanta gente, anzi è mezzo vuoto e oltre a noi c'è un gruppetto di signori che sippano superalcolici vari. Al bancone dico qualcosa io o sono loro ad attaccare bottone, non mi ricordo. Ce l'ho nel sangue parlare con la gente nei bar, proprio come i vecchi. Scopro che i signori sono fuori città per lavoro e che si trovano a Melbourne per una conferenza su boh, le zanzariere anti-furto?
Le ragazze mi raggiungono presto. Mi fanno subito notare che uno dei presenti "è un figo da paura". Allora, l'età media è 35 anni, chi piú chi meno. Un 27enne che ne dimostra 40 viene da New York, lavora come pubblicitario e ha una camicia rosa salmone orribile. Un altro della stessa età è senza grazia, a prescindere dall'abbigliamento, poi c'è Ewan McGregor. Sono sincera, a parte che era belloccio, sul momento non me lo calcolo tanto. Ma lui sí. Yeah. Le ragazze ci provano in tutti i modi, una gli chiede addirittura una foto insieme. Lo scozzese, come ci ha detto di essere, però guarda solo me. Sapete, di bellocci ce ne sono tanti in giro ma quando qualcuno ci dedica attenzioni particolari, si dimostra gentile e senza pretese ecco che allora piano piano fa breccia e si guadagna il titolo di maschio Alfa. E a proposito di alfa, tutto procede secondo natura.
Lui fa il brillante, cerca di essere interessante, io gli sorrido educatamente ma senza slanci.
Lui persevera, +1. Le mie amiche pure, vediamo se abbandona per prede più facili. Lo metto alla prova, mi imbrutisco, fischio come un pastore e lo sfido a fare altrettanto (è un principino a modino, di quelli con la camiciola, tutto profumato, ste cose non le fa).
Le fa, le fa! Fischia, ma non ci riesce, e mi guarda con la faccia triste, +2. "Però so fare questo" e tenendosi per un piede con l'altra gamba fa una specie di acrobazia. Cavolo questo è scemo forte, mi dico, +20 punti.
Le altre non le guarda proprio, +30. Nicoletta "20$ se te lo trombi!". Cominciamo a parlare, è intelligente, simpatico soprattutto, ha il senso dell'umorismo (ho un debole per chi mi fa ridere), +10. Mi chiede se mi piacerebbe avere un giorno dei figli: lui tanto, ma non ha ancora trovato la donna giusta (ps: ha 37 anni), +50 punti a lui, -50 punti a me perché ho abboccato come una quaglia (le quaglie abboccano? Peggio ancora). 
Alla fine mi bacia.
Le mie amiche decidono di cambiare locale. Lui mi chiede che voglio fare.
"Andare con le mie amiche ovviamente, che domande!"
Principe quanto vuoi, ma chi ti conosce? Non è che voglio fare la pulita, ma sono a Melbourne con delle ragazze folli, voglio ballare tutta la notte e fare mattino ululando alla luna.
Sono decisa, non esiste, non mi va. Finché con slancio inaspettato si guadagna altri +20 punti "Senti, domani mattina ho l'aereo per Sydney, forse non ci vedremo mai più; giuro, ti prometto, non ti toccherò con un dito, voglio solo parlare ancora un po' con te, trascorrere le ultime ore in tua compagnia".
Rimango con un cipiglio. Fuori in strada intanto comincia a piovere. È una pioggia gentile che inumidisce il viso e fa brillare l'asfalto. Senza che io risponda, Stephen mi carica sulle sue spalle e a cavallo mi porta via con sé.
Nel taxi sono un po' spaventata, ci sono anche i suoi amici. Lui se ne accorge e mi da le sue chiavi della stanza, "queste tienile tu".
Arriviamo ai piedi di un grattacielo, South Yarra, zona ricca. Saliamo in alto alto alto!
L'appartamento è qualcosa di incredibile. Ha un lato completamente finestrato, si vede tutta Melbourne da lassù, e il mare sotto, e le barche illuminate. Uno dei suoi amici mette un po' di musica, mi chiede se voglio qualcosa da bere ma non mi va niente. I suoi amici non mi piacciono, sono volgari, non capisco troppo bene quando parlano ma di sicuro niente di buono.
Decidiamo di andare a dormire. Stephen mi chiede se voglio usare il suo spazzolino, poi si lava i denti lui. Ci mettiamo a letto vestiti. Lui mantiene la parola.
Poi, come era previsto che accadesse:

Volare, oh-oh, cantare, oh-oh-oh-oh, nel blu, dipinto di blu, felice di stare lassù... 

e

Quando sei qui con me, questo soffitto viola no, non esiste più, io vedo il cielo sopra noi...

o anche,


Io che non vivo più di un'ora senza te, ma come posso stare una vita senza te! Sei mia, sei mia, mai niente lo sai, separarci un giorno potrà...


Poi, chi l'ha sentito più. Gli ho mandato un messaggio, così per provare, ma niente, nessuna risposta. Sparito, dileguato, sciolto nell'inchiostro nero della notte.
"Baldi non ci rimanere male: segna +1 e tira avanti".
Ma sí, tanto che ci posso fare? Giuliano ha ragione.

lunedì 14 aprile 2014

Non vale la pena darsi pena

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Com’è bello far l’amore da Trieste in giù mi assale appena mi faccio largo tra le tendine in pvc dello stabilimento. È la prima volta in tutta la vita che lavoro come operaia in fabbrica. C’è il rumore assordante dei macchinari mischiato alla voce di Raffaella sparata a tutto volume. Ho un camice azzurro di polipropilene e una cuffia dello stesso materiale e colore. Santiago è il mio manager, argentino, fisicamente a metà tra Maradona e un homo sapiens, parla poco niente di inglese, è lui che coordina e dirige il turno di giorno. Sì perché la fabbrica non si spegne mai, è tenuta in vita dagli operai che si danno il cambio.
Come prima cosa mi piazzano al packaging, devo cioè piegare dei cartoni e farne delle scatole. Ci sono un sacco di italiani. Sono ragazzi tra i 23 e i 30 anni, qualcuno è qui da qualche mese, qualcun altro da anni. Sono del sud, vivono nei dintorni per risparmiare, in casa con altri italiani. C’è una ragazza cinese, l’unica che mi sorride, un paio indiane, la più anziana cordiale, la giovane nemmeno mi guarda in faccia, e una macedone di 33 anni che ne dimostra 50. Mi chiede subito perché non sono sposata e perché non ho figli. Lei è l’amante di Santiago ma lo scoprirò soltanto alla fine.
«Ti piace questo lavoro?»
Certo, che domande. E quanto ti fermerai? Ah, un sacco di tempo, il più possibile, era il sogno di una vita lavorare qui.
Ebbene si comincia. Faccio una cappella fin da subito, la prima di una lunga serie finché dopo due settimane a licenziarmi ci penso da sola. Ma andiamo in ordine:

  1. Leggi le etichette: mi danno delle etichette da appiccicare sulle scatole. Hanno diciture diverse, manco mi accorgo della differenza a dire il vero. Faccio casino, così dobbiamo aprire tutte le scatole, tirare fuori le pizze al pomodoro e metterle nella scatola giusta, che non era quella con l'etichetta delle pizze bianche.
  2. Conta le scatole sul carrello: evidentemente non so contare. Entrare nel magazzino, tirare fuori le scatole imballate, rifare il conteggio – conterà qualcun altro al posto mio – quindi imballare di nuovo.
  3. Aguzza la vista: impara a riconoscere a colpo d’occhio la differenza tra una pizza biancastra e una pizza bianco panna. Quella bianco panna va sempre sopra. Ok, questa era difficile.
  4. Controllare che ci sia la data sulle singole confezioni. Mi sbaglio ancora, e anche stavolta riapri tutte le scatole e metti l’etichetta con la data dove non c’è.
  5. Prova di abilità a, b, c. A) distribuire la salsa di pomodoro sue due basi entro 4 secondi perché il rullo scorre e se ci metti un secondo di più gli altri operai devono accorrere per sistemare le pizze prima che entrino nel forno. B) Fare gruppi di 10 e di 5 pizze intanto che il surgelatore ne spara a migliaia alla velocità della luce. C) Contare 7 pizze e inscatolare, metterle nel verso giusto, il tutto sempre sotto l’assalto delle pizze in arrivo.

Con le prove di abilità, devo dire, me la sono cavata abbastanza bene. A mia discolpa dico che Santiago me lo poteva spiegare a parole quello che dovevo fare invece che a gesti. Per mettere le etichette batteva il dito sul riquadro della scatola poi alzava l’indice per farmi capire che dovevo stare attenta, e infine mi mostrava come staccava e appiccicava il foglietto. Oppure, per avvisarmi che potevo andare in pausa pranzo, si beccava sulla bocca con la mano, e siccome non si ricordava il mio nome faceva un verso gutturale così tu per forza ti giravi. Forse era semplicemente sordomuto e non me ne sono mai accorta.
No, la fabbrica non faceva per me. Il povero Santiago era anche una buon’anima, credo di avergli fatto vedere i sorci verdi. Siccome non mi piace essere negli incubi delle persone, una mattina vado da lui e mi scuso per avergli recato problemi e gli dico che capisco che è il caso che me ne vada. Non se lo aspettava. Mi ringrazia per la mia onestà e mi congeda con una pacca sulla spalla. A pranzo poi, visto che ormai si poteva sbottonare, mi dice che il mio iPhone 3G è una cagata, che l’ho pagato un sacco e che mi sono fatta fregare. Sfotti, sfotti, te intanto sei da 15 anni in Australia e ancora parli l’inglese come un immigrato appena sbarcato, tiè.
Giuliano l’hanno mandato via dopo tre giorni. Da quello che ho capito però, nel suo caso c’era in ballo una questione territoriale, una ripartizione tra maschi Alfa, conoscenze che andavano piazzate e via discorrendo.
Eravamo di nuovo insieme quindi? Sì ma sempre lontani. Cioè, lui era lontano, io no. C’era poi ancora la ragazza trevigiana nella sua vita, faceva il duro ma le voleva bene, come io del resto volevo bene a lui e me lo facevo bastare. Ma a parte questo, non ero ricambiata e fine. Che poi anche immaginando un happy end, che fare delle nostre vite? Obbiettivi futuri diversissimi: io sarei andata a Londra forse a studiare, lui in Indonesia in cerca delle solite avventure.
Ve lo dico subito, ne sono capitate tante da allora. La mia vita scorre ancora sotto il suo ponte, gliela racconto tutta, un fiume su cui transitano navi dorate, con feste e sceicchi a bordo, che però una volta passate si dimenticano in fretta. Giuliano è invece la felpa che porto sempre con me nello zaino, che se non ho mi viene freddo, il tempo in 4/4 dello spartito attorno cui le mie note ballano. 
Sotterrerà chilometri, mesi e innamoramenti. Cavalcherà lo spazio e il tempo. Ma ancora non lo sapevo.

Nel frattempo, comunque, avevo cambiato casa. Dormendo sul divano della sala mi toccava stare sveglia a volte anche fino alle due di notte, perché i ragazzi fumavano e giocavano alla Playstation a oltranza; considerando che al mattino la sveglia era alle cinque e che dentro la fabbrica ci dovevo stare per dieci o dodici ore filate, a una certa m’ero un po’ esaurita.

La casa la scelgo nello stesso quartiere. Non voglio essere lontana dai miei amici, anche per uscire insieme, fare serata eccetera. Perché lo so come funziona nelle città grandi, finisce che non ti riesci mai a beccare. La trovo quindi a Brunswick, in Albion street.
Con la fabbrica ho guadagnato $1700 in due settimane così non mi faccio problemi per una bella casettina, camera singola, pavimenti in parquet, bagno con doccia superbomb, giardino e garage. Affitto costosetto, $850 al mese, me lo posso permettere, figurarsi. Poi vabbè, mi sono licenziata. Per un mese sono a posto, mi dico, sarò buona di trovare un altro lavoro, no?

I giorni successivi sono stati idilliaci. Poter dormire, finalmente, e farmi passare gli acciacchi. Non potete immaginare come mi ero ridotta, lividi e dolori dappertutto, graffi uguale, mani un disastro, le braccia di un’eroinomane, sul serio, da vergognarsi a stare in maniche corte. E poi non sono venuta in Australia per guadagnare soldi, sono partita per il party adolescenziale più lungo della mia vita. E babbo, che ha sempre faticato, concorda con me.
Non ho idea che direzione prenderò nei prossimi mesi. Ma è ok, sono venuta apposta qua per permettermi di non saperlo. Il mio agente di Bruxelles non mi chiama più, sono dall’altra parte del mondo, non si fida ad affidarmi nuovi lavori, illustrazioni intendo. Va bene anche questo. Ho passato anni a dannarmi lo spirito per pubblicare abbastanza titoli ogni anno, e poi? Una cosa capirò in questo viaggio, e ve la anticipo già da ora: non vale la pena darsi pena. Si procede per tentativi. E il webmastering insegna che a mettere pezze e correggere gli errori a volte si fa peggio, conviene buttare il file e ricominciare d’accapo. Ripercorrere gli stessi sentieri, a forza di cose, ti costringe a diventare abile. Rammaricarsi è solo uno spreco di tempo e di energie.



Nella casa nuova c’è Tamish, indiano chiropratico – che non è una malattia, è tipo un osteopata –, e Alicia e Tom, australiana fisioterapista lei, californiano muratore lui. La pulizia della casa, la sua bellezza, i suoi mille elettrodomestici da un lato mi fanno sentire una principessa, dall’altro mi mettono un po’ d’ansia. Sapete, quando avete l’impressione di non poter toccare niente in casa d’altri. Tamish me la fa venire in realtà, cerca di essere sempre smagliante, è affettato. Poi non lo capisco bene quando parla: oltre all’accento indiano ha anche la “s” sibila. All’inizio, pensate, avevo capito che lui “stava insieme” a Tom, invece no, Tom è sposato con Alicia! Comunque, dicevo, che ci ho messo un po’ a rilassarmi, finché un giorno Tom, tornato dal lavoro stanco e affranto, si scola una birra tutto d’un fiato e trionfante rutta da far tremare i vetri ed ecco, credo che da quel momento abbia cominciato a sentirmi a casa.

lunedì 7 aprile 2014

Le ragazze thai do it better


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Adesso non mi ricordo se era un sabato o una domenica, comunque fuori mezzo pioveva e io e Giuliano eravamo rimasti a casa da soli perché tutti gli altri lavoravano. Sto lunga sul divano sotto un piumone gigante senza fodera. Penso che non ho fame, non ho fame, non ho fame.
«Che ti cucino, Baldi?»
Mugolo qualcosa. Nel frigo non c’è granché così andiamo a fare la spesa. Woolwhorts è dietro l’angolo. Non ci azzardiamo a sperimentare cucine strane, compriamo un bel pacco di spaghetti, pomodoro, cipolla, quelle cose lì insomma. A casa pensa a tutto lui, dice che gli piace mettersi ai fornelli, così io mi siedo e lascio fare. Non sono una di quelle che mette bocca, giusto fatico a mandare giù i piatti troppo carichi di sale, di olio, di lombrichi, ma di solito mi faccio andare bene tutto. Giuliano è uno che magna invece, «la madre di una mia ex ancora si ricorda, una sera a cena gli ho fatto fuori sette piadine», e mi racconta di sua nonna, di quando le scimmiottava i super poteri di Goku per farla ridere.
Dormiamo tutto il pomeriggio, io su un divano, Giuliano sull’altro. Verso sera rientrano gli altri dal lavoro, stanchi, si siedono con noi con una birra ghiacciata. Si finisce col parlare del sesso a pagamento perché qualche ora prima era rientrato Tambu dalla Tailandia.
«Sei proprio un coglione, come si fa ad andarci sotto con una troia?»
Lui ribatte che questa non è come le altre. Si erano incontrati e piaciuti subito. Lei lo aveva portato a casa sua, con la sua famiglia, e addirittura al mattino le sorelle gli facevano ciao ciao tutte contente.
«Certo, entrava la grana. Vecchio, il segreto è scopare ogni sera con una diversa.»
«Vuoi dire che ci sei andato vicino anche tu, allora», chiedo io a Giuliano.
«No, è che sono delle castagne da paura e ci sanno fare; dì un po’, Tambu, quanto t’è costata la fanciulla?»
Si erano abbracciati stretti prima di lasciarsi. Avevano provato ad evitarsi per un po’, ma si erano rincontrati per caso in una discoteca, tra migliaia di persone. Lei lo aveva abbracciato forte, lui no, non ne aveva avuto il coraggio. Messaggi in aeroporto, sia all’andata che al ritorno.
«Lavora di giorno in un bar e la notte si prostituisce; è la loro cultura, hanno un’altra mentalità, non si può fare un confronto con la nostra… le thai, che grandissime donne, tremila giri a tante fighette italiane del cazzo.»
«Oh, Tambu, che ne sai nella vita…»
«Baldi non ti ci mettere anche tu.»
«Giulio ha ragione, non c’è storia.»
Restiamo per un po’ in silenzio, chi si fa uno scolo di birra, chi un tiro di maria. Poi esordisce Andrea, il veronese, con: «Io la prima volta che sono andato a troie, è stato con una signora di 60 anni. Ero un ragazzino, c’avrò avuto sì e no 14 anni ma, raga, questa li portava bene proprio, sembrava una cinquantenne, una signora di classe, veramente…»
Mi sbrego dalle risate, poi guardo Giuliano. Sta seduto sulla poltrona come un vecchio del bar, la schiena aderente allo schienale, i gomiti sui braccioli, una mano regge la birra, l’altra una sigaretta di tabacco. Ogni tanto quando parla dei tic impercettibili gli attraversano il volto. Ha i capelli un po’ arruffati dietro la nuca, anche se sono lisci e corti, e penso che mi piace.
«Stammi invece a sentire, Giulio», gli fa Tambu con gli occhi diversi, «io sono rimasto senza soldi, non è che hai qualcosa per me?».

«Com’è Giulio, che vi siete messi a fare i delinquenti?»
«Io, fosse per me, starei anche buonino, ma se il sistema non mi aiuta io mi ingegno.»
Stiamo entrando nella Library, Swanston street. È lunedì e faremo lo stesso per altri dieci giorni. Ogni giorno a cercare lavoro, sfruttando la connessione gratuita della biblioteca che ogni quindici minuti si azzera così tocca a fare login ogni volta. Non saprei dire quanti resumè, ovvero curricula, avremo inviato ogni giorno. Gumtree.com.au è il Gange dove tutti i fiumi si riversano, qualcuno offre, la maggior parte chiede. Passata la prima settimana un po’ d’ansia mi viene, soprattutto se vedi che nessuno ti risponde. Andiamo a Lygon street con i curricula sotto braccio per distribuirli porta a porta. Il cielo è grigio, pioviggina. Mi butto appena vedo una gelateria, cerco di essere brillante. A Pesaro, d’estate, quando lavoravo da Germano, facevo anche tre coni per volta; mi mettevo una cialda tra il mignolo e l’anulare, tra l’anulare e il medio, l’altra tra il medio e l’indice. Questo quando c’erano le mandrie di ragazzini e i genitori per non immattirsi decidevano per loro fisso fragola e fiordilatte.
Entro poi in una salumeria, vendono anche vini e formaggi, una signorina gentile mi chiede se ho una discreta cultura vinicola. Da Brunetti, la caffetteria, parlo con un’altra ragazza, italiana – Brunetti assume solo italiani – dico che il numero me l’ha dato un certo Eolo ma mi guardano strano, non lo conosce nessuno. Mi chiede se parlo inglese, sì. Mi promettono una chiamata in settimana per una prova. Se ti chiamano è fatta, dice Giuliano, c’è da essere un disastro per non farsi assumere. Gli australiani, a suo dire, non hanno voglia di spaccarsi la schiena, mentre noi italiani non solo lavoriamo come muli ma ci ignegnamo, se c’è un problema siamo creativi eccetera, Italians do it better secondo lui e Madonna – pure Lady Gaga, pare.
Better o no, Giuliano mi lascia da sola, piove, quindi se ne torna a casa. La pioggia mi sgualcisce i curricula e scioglie il toner delle salatissime fotocopie. Resto appesa a una sensazione strana. Non so cosa fare, se mettermi a cercare subito una stanza o aspettare di trovare lavoro. Non posso stare in eterno dai ragazzi, sul divano con Giuliano, ho voglia di coinquilini stranieri, di parlare in inglese e partire veramente con questa avventura. Mi spaventano i soldi e il lavoro che fatica ad arrivare. Mi sento un po’ persa ora che Giuliano è andato via, credo perché quel bestione cominci a piacermi. Ma può essere perché non ho altri punti di riferimento in questo nuovo continente e, a maggior ragione, questa inaspettata attrazione è il campanello d’allarme per allontanarsi. A 30 anni Sansone si è fatto esperto, sa che prima o poi Dalila gli taglierà i capelli.
Buonanotte Giu. Buonanotte Baldi. Sveglia 8,30-9, colazione, tram 19 senza pagare mai il biglietto, Library, ogni giorno insieme. Le ragazze d’acqua innamorate, io col sole in pesci e l’ascendente in cancro, attraversano l’altro per propensione naturale, attivano la magia delle coincidenze solo desiderando. Così capita che un giorno torno a casa prima del previsto, trovo Giuliano in cucina, non vedo l’ora di dargli la buona notizia, «Non ci crederai, ho trovato lavoro!», «Grande, anche io! E dove?», «Mi ha chiamato un certo Giancarlo, l’amico di Eolo, sai, il tipo che avevo conosciuto in aereo, ricordi?», «Ahahah! Giancarlo, anche il mio si chiama Giancarlo, è tutta l’estate che lo chiamo per farmi prendere a lavorare nella sua fabbrica, ma scusa dove…», «Io pizze surgelate…», «No, aspetta, non ci credo, Campfield?».
Esattamente. In tutta Melbourne, da fonti assolutamente diverse e separate ci ritroviamo ad essere in contatto con lo stesso manager. Lui, Giuliano, erano mesi che provava a chiamarlo, io vengo contattata da lui grazie a Eolo che avevo conosciuto in aereo. È tutto vero, giuro che non mi sto inventando niente.
Non è finita.
Il giorno dopo, mi pare fosse un giovedì, ricevo un’altra proposta di lavoro, interview sabato ore 13. Una certa Christine? Aveva contattato anche lui. Ok, questo ci sta, tutti e due rovistiamo in Gumtree + Melbourne + job. Solo che lui alla fine non ci è potuto andare perché aveva la prova in fabbrica venerdì notte e io neppure, perché all’ultimo mi chiamano per fare la prova sabato mattina.

Sabato, ore 5,30, l’alba. Il divano accanto al mio è vuoto. Sono agitata, ho paura di non trovare la fabbrica, non è a Melbourne, bisogna andarci con il treno e poi prendere l’autobus. È buio, praticamente notte, fa freddo. Ho ancora vivo il suono del treno e l’autoparlante che avvisa la direzione. Arrivo a capolinea verso le 6, ci sono tre operai alla fermata, uno di loro leggerà sempre il giornale, uno fumerà la sua sigaretta per poi sputare a terra, l’altro sigaretta e caffè. Quando arriva l’autobus chiedo al conducente se la corsa è quella giusta per andare alla fabbrica di pizze Giglio. Lui mi chiede da dove vengo poi mi dice che è russo e se posso passargli il contatto del manager dove sto andando a lavorare. Mi faccio un’idea che il mio posto di lavoro è abbastanza ambito e che è difficile entrarci se non conosci qualcuno. Il russo mi indica la fermata dove scendere e mi spiega che strada devo fare. Sarebbe stato impossibile senza il suo aiuto, c’è una superstrada da attraversare, e poi solo capannoni industriali. È mattina ormai e il cielo si è schiarito. Con me scende una signora sulla cinquantina, una ragazza e un ragazzo indiani. È orribile attraversare la superstrada, quattro corsie in tutto con lo spartitraffico, tutti corrono come matti, puoi passare solo quando non ci sono più macchine.
Grazie a dio un paio di giorni prima mi ero fatta uno smartphone, un iPhone 3G a dire il vero, per risparmiare, che se compravo un cellulare di legno forse era meglio. Non avevo considerato che la macchina non avrebbe retto i più aggiornati sistemi operativi, così mi ritrovo un internet lentissimo e una piattaforma refrattaria alle apps di facebook, whatsapp e skype. Ormai era fatta, $200, manco poco l’avevo pagato. Le cazzate si fanno quando non si decide a mente lucida. Anyway, almeno Google Maps funziona e mi porta dritto dal Giglio.
C’è un gruppetto di operaie fuori della fabbrica, sigaretta e telefonino in mano. Sono quasi le 7. Vedo Giuliano, la faccia stravolta, il viso pallido. Mi si stringe il cuore, poi mi batte forte, è come vedere qualcuno di casa, un porto sicuro. Gli corro incontro senza pensarci troppo, gli prendo il viso tra le mani con una carezza e gli chiedo come è andata. Sono diventata la sua compagna di avventure e disavventure, tutto questo è romantico e disgraziato. Ci incontreremo solo al cambio turno d’ora in poi, pochi minuti all’alba e altri miseri istanti al tramonto, perché lui lavora di notte, io di giorno. Uguale a Ladyhawke, mi dico, che alla fine somiglia tanto anche alle nostre vite.