lunedì 7 aprile 2014

Le ragazze thai do it better


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Adesso non mi ricordo se era un sabato o una domenica, comunque fuori mezzo pioveva e io e Giuliano eravamo rimasti a casa da soli perché tutti gli altri lavoravano. Sto lunga sul divano sotto un piumone gigante senza fodera. Penso che non ho fame, non ho fame, non ho fame.
«Che ti cucino, Baldi?»
Mugolo qualcosa. Nel frigo non c’è granché così andiamo a fare la spesa. Woolwhorts è dietro l’angolo. Non ci azzardiamo a sperimentare cucine strane, compriamo un bel pacco di spaghetti, pomodoro, cipolla, quelle cose lì insomma. A casa pensa a tutto lui, dice che gli piace mettersi ai fornelli, così io mi siedo e lascio fare. Non sono una di quelle che mette bocca, giusto fatico a mandare giù i piatti troppo carichi di sale, di olio, di lombrichi, ma di solito mi faccio andare bene tutto. Giuliano è uno che magna invece, «la madre di una mia ex ancora si ricorda, una sera a cena gli ho fatto fuori sette piadine», e mi racconta di sua nonna, di quando le scimmiottava i super poteri di Goku per farla ridere.
Dormiamo tutto il pomeriggio, io su un divano, Giuliano sull’altro. Verso sera rientrano gli altri dal lavoro, stanchi, si siedono con noi con una birra ghiacciata. Si finisce col parlare del sesso a pagamento perché qualche ora prima era rientrato Tambu dalla Tailandia.
«Sei proprio un coglione, come si fa ad andarci sotto con una troia?»
Lui ribatte che questa non è come le altre. Si erano incontrati e piaciuti subito. Lei lo aveva portato a casa sua, con la sua famiglia, e addirittura al mattino le sorelle gli facevano ciao ciao tutte contente.
«Certo, entrava la grana. Vecchio, il segreto è scopare ogni sera con una diversa.»
«Vuoi dire che ci sei andato vicino anche tu, allora», chiedo io a Giuliano.
«No, è che sono delle castagne da paura e ci sanno fare; dì un po’, Tambu, quanto t’è costata la fanciulla?»
Si erano abbracciati stretti prima di lasciarsi. Avevano provato ad evitarsi per un po’, ma si erano rincontrati per caso in una discoteca, tra migliaia di persone. Lei lo aveva abbracciato forte, lui no, non ne aveva avuto il coraggio. Messaggi in aeroporto, sia all’andata che al ritorno.
«Lavora di giorno in un bar e la notte si prostituisce; è la loro cultura, hanno un’altra mentalità, non si può fare un confronto con la nostra… le thai, che grandissime donne, tremila giri a tante fighette italiane del cazzo.»
«Oh, Tambu, che ne sai nella vita…»
«Baldi non ti ci mettere anche tu.»
«Giulio ha ragione, non c’è storia.»
Restiamo per un po’ in silenzio, chi si fa uno scolo di birra, chi un tiro di maria. Poi esordisce Andrea, il veronese, con: «Io la prima volta che sono andato a troie, è stato con una signora di 60 anni. Ero un ragazzino, c’avrò avuto sì e no 14 anni ma, raga, questa li portava bene proprio, sembrava una cinquantenne, una signora di classe, veramente…»
Mi sbrego dalle risate, poi guardo Giuliano. Sta seduto sulla poltrona come un vecchio del bar, la schiena aderente allo schienale, i gomiti sui braccioli, una mano regge la birra, l’altra una sigaretta di tabacco. Ogni tanto quando parla dei tic impercettibili gli attraversano il volto. Ha i capelli un po’ arruffati dietro la nuca, anche se sono lisci e corti, e penso che mi piace.
«Stammi invece a sentire, Giulio», gli fa Tambu con gli occhi diversi, «io sono rimasto senza soldi, non è che hai qualcosa per me?».

«Com’è Giulio, che vi siete messi a fare i delinquenti?»
«Io, fosse per me, starei anche buonino, ma se il sistema non mi aiuta io mi ingegno.»
Stiamo entrando nella Library, Swanston street. È lunedì e faremo lo stesso per altri dieci giorni. Ogni giorno a cercare lavoro, sfruttando la connessione gratuita della biblioteca che ogni quindici minuti si azzera così tocca a fare login ogni volta. Non saprei dire quanti resumè, ovvero curricula, avremo inviato ogni giorno. Gumtree.com.au è il Gange dove tutti i fiumi si riversano, qualcuno offre, la maggior parte chiede. Passata la prima settimana un po’ d’ansia mi viene, soprattutto se vedi che nessuno ti risponde. Andiamo a Lygon street con i curricula sotto braccio per distribuirli porta a porta. Il cielo è grigio, pioviggina. Mi butto appena vedo una gelateria, cerco di essere brillante. A Pesaro, d’estate, quando lavoravo da Germano, facevo anche tre coni per volta; mi mettevo una cialda tra il mignolo e l’anulare, tra l’anulare e il medio, l’altra tra il medio e l’indice. Questo quando c’erano le mandrie di ragazzini e i genitori per non immattirsi decidevano per loro fisso fragola e fiordilatte.
Entro poi in una salumeria, vendono anche vini e formaggi, una signorina gentile mi chiede se ho una discreta cultura vinicola. Da Brunetti, la caffetteria, parlo con un’altra ragazza, italiana – Brunetti assume solo italiani – dico che il numero me l’ha dato un certo Eolo ma mi guardano strano, non lo conosce nessuno. Mi chiede se parlo inglese, sì. Mi promettono una chiamata in settimana per una prova. Se ti chiamano è fatta, dice Giuliano, c’è da essere un disastro per non farsi assumere. Gli australiani, a suo dire, non hanno voglia di spaccarsi la schiena, mentre noi italiani non solo lavoriamo come muli ma ci ignegnamo, se c’è un problema siamo creativi eccetera, Italians do it better secondo lui e Madonna – pure Lady Gaga, pare.
Better o no, Giuliano mi lascia da sola, piove, quindi se ne torna a casa. La pioggia mi sgualcisce i curricula e scioglie il toner delle salatissime fotocopie. Resto appesa a una sensazione strana. Non so cosa fare, se mettermi a cercare subito una stanza o aspettare di trovare lavoro. Non posso stare in eterno dai ragazzi, sul divano con Giuliano, ho voglia di coinquilini stranieri, di parlare in inglese e partire veramente con questa avventura. Mi spaventano i soldi e il lavoro che fatica ad arrivare. Mi sento un po’ persa ora che Giuliano è andato via, credo perché quel bestione cominci a piacermi. Ma può essere perché non ho altri punti di riferimento in questo nuovo continente e, a maggior ragione, questa inaspettata attrazione è il campanello d’allarme per allontanarsi. A 30 anni Sansone si è fatto esperto, sa che prima o poi Dalila gli taglierà i capelli.
Buonanotte Giu. Buonanotte Baldi. Sveglia 8,30-9, colazione, tram 19 senza pagare mai il biglietto, Library, ogni giorno insieme. Le ragazze d’acqua innamorate, io col sole in pesci e l’ascendente in cancro, attraversano l’altro per propensione naturale, attivano la magia delle coincidenze solo desiderando. Così capita che un giorno torno a casa prima del previsto, trovo Giuliano in cucina, non vedo l’ora di dargli la buona notizia, «Non ci crederai, ho trovato lavoro!», «Grande, anche io! E dove?», «Mi ha chiamato un certo Giancarlo, l’amico di Eolo, sai, il tipo che avevo conosciuto in aereo, ricordi?», «Ahahah! Giancarlo, anche il mio si chiama Giancarlo, è tutta l’estate che lo chiamo per farmi prendere a lavorare nella sua fabbrica, ma scusa dove…», «Io pizze surgelate…», «No, aspetta, non ci credo, Campfield?».
Esattamente. In tutta Melbourne, da fonti assolutamente diverse e separate ci ritroviamo ad essere in contatto con lo stesso manager. Lui, Giuliano, erano mesi che provava a chiamarlo, io vengo contattata da lui grazie a Eolo che avevo conosciuto in aereo. È tutto vero, giuro che non mi sto inventando niente.
Non è finita.
Il giorno dopo, mi pare fosse un giovedì, ricevo un’altra proposta di lavoro, interview sabato ore 13. Una certa Christine? Aveva contattato anche lui. Ok, questo ci sta, tutti e due rovistiamo in Gumtree + Melbourne + job. Solo che lui alla fine non ci è potuto andare perché aveva la prova in fabbrica venerdì notte e io neppure, perché all’ultimo mi chiamano per fare la prova sabato mattina.

Sabato, ore 5,30, l’alba. Il divano accanto al mio è vuoto. Sono agitata, ho paura di non trovare la fabbrica, non è a Melbourne, bisogna andarci con il treno e poi prendere l’autobus. È buio, praticamente notte, fa freddo. Ho ancora vivo il suono del treno e l’autoparlante che avvisa la direzione. Arrivo a capolinea verso le 6, ci sono tre operai alla fermata, uno di loro leggerà sempre il giornale, uno fumerà la sua sigaretta per poi sputare a terra, l’altro sigaretta e caffè. Quando arriva l’autobus chiedo al conducente se la corsa è quella giusta per andare alla fabbrica di pizze Giglio. Lui mi chiede da dove vengo poi mi dice che è russo e se posso passargli il contatto del manager dove sto andando a lavorare. Mi faccio un’idea che il mio posto di lavoro è abbastanza ambito e che è difficile entrarci se non conosci qualcuno. Il russo mi indica la fermata dove scendere e mi spiega che strada devo fare. Sarebbe stato impossibile senza il suo aiuto, c’è una superstrada da attraversare, e poi solo capannoni industriali. È mattina ormai e il cielo si è schiarito. Con me scende una signora sulla cinquantina, una ragazza e un ragazzo indiani. È orribile attraversare la superstrada, quattro corsie in tutto con lo spartitraffico, tutti corrono come matti, puoi passare solo quando non ci sono più macchine.
Grazie a dio un paio di giorni prima mi ero fatta uno smartphone, un iPhone 3G a dire il vero, per risparmiare, che se compravo un cellulare di legno forse era meglio. Non avevo considerato che la macchina non avrebbe retto i più aggiornati sistemi operativi, così mi ritrovo un internet lentissimo e una piattaforma refrattaria alle apps di facebook, whatsapp e skype. Ormai era fatta, $200, manco poco l’avevo pagato. Le cazzate si fanno quando non si decide a mente lucida. Anyway, almeno Google Maps funziona e mi porta dritto dal Giglio.
C’è un gruppetto di operaie fuori della fabbrica, sigaretta e telefonino in mano. Sono quasi le 7. Vedo Giuliano, la faccia stravolta, il viso pallido. Mi si stringe il cuore, poi mi batte forte, è come vedere qualcuno di casa, un porto sicuro. Gli corro incontro senza pensarci troppo, gli prendo il viso tra le mani con una carezza e gli chiedo come è andata. Sono diventata la sua compagna di avventure e disavventure, tutto questo è romantico e disgraziato. Ci incontreremo solo al cambio turno d’ora in poi, pochi minuti all’alba e altri miseri istanti al tramonto, perché lui lavora di notte, io di giorno. Uguale a Ladyhawke, mi dico, che alla fine somiglia tanto anche alle nostre vite.





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