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Com’è bello far l’amore da Trieste in giù mi assale appena mi faccio largo tra le tendine in pvc dello stabilimento. È la prima volta in tutta la vita che lavoro come operaia in fabbrica. C’è il rumore assordante dei macchinari mischiato alla voce di Raffaella sparata a tutto volume. Ho un camice azzurro di polipropilene e una cuffia dello stesso materiale e colore. Santiago è il mio manager, argentino, fisicamente a metà tra Maradona e un homo sapiens, parla poco niente di inglese, è lui che coordina e dirige il turno di giorno. Sì perché la fabbrica non si spegne mai, è tenuta in vita dagli operai che si danno il cambio.
Nel frattempo, comunque, avevo cambiato casa. Dormendo sul divano della sala mi toccava stare sveglia a volte anche fino alle due di notte, perché i ragazzi fumavano e giocavano alla Playstation a oltranza; considerando che al mattino la sveglia era alle cinque e che dentro la fabbrica ci dovevo stare per dieci o dodici ore filate, a una certa m’ero un po’ esaurita.
Com’è bello far l’amore da Trieste in giù mi assale appena mi faccio largo tra le tendine in pvc dello stabilimento. È la prima volta in tutta la vita che lavoro come operaia in fabbrica. C’è il rumore assordante dei macchinari mischiato alla voce di Raffaella sparata a tutto volume. Ho un camice azzurro di polipropilene e una cuffia dello stesso materiale e colore. Santiago è il mio manager, argentino, fisicamente a metà tra Maradona e un homo sapiens, parla poco niente di inglese, è lui che coordina e dirige il turno di giorno. Sì perché la fabbrica non si spegne mai, è tenuta in vita dagli operai che si danno il cambio.
Come prima cosa mi piazzano al
packaging, devo cioè piegare dei cartoni e farne delle scatole. Ci sono un
sacco di italiani. Sono ragazzi tra i 23 e i 30 anni, qualcuno è qui da qualche
mese, qualcun altro da anni. Sono del sud, vivono nei dintorni per risparmiare,
in casa con altri italiani. C’è una ragazza cinese, l’unica che mi sorride, un
paio indiane, la più anziana cordiale, la giovane nemmeno mi guarda in faccia,
e una macedone di 33 anni che ne dimostra 50. Mi chiede subito perché non sono
sposata e perché non ho figli. Lei è l’amante di Santiago ma lo scoprirò
soltanto alla fine.
«Ti piace questo lavoro?»
Certo, che domande. E quanto ti
fermerai? Ah, un sacco di tempo, il più possibile, era il sogno di una vita
lavorare qui.
Ebbene si comincia. Faccio una
cappella fin da subito, la prima di una lunga serie finché dopo due settimane a licenziarmi ci penso da sola. Ma andiamo in ordine:
- Leggi le etichette: mi danno delle etichette da appiccicare sulle scatole. Hanno
diciture diverse, manco mi accorgo della
differenza a dire il vero. Faccio casino, così dobbiamo aprire tutte le scatole, tirare fuori le pizze al pomodoro e
metterle nella scatola giusta, che non era quella con l'etichetta delle pizze bianche.
- Conta le scatole sul carrello: evidentemente non so contare. Entrare nel
magazzino, tirare fuori le scatole imballate, rifare il conteggio –
conterà qualcun altro al posto mio – quindi imballare di nuovo.
- Aguzza la vista:
impara a riconoscere a colpo d’occhio la differenza tra una pizza
biancastra e una pizza bianco panna. Quella bianco panna va sempre sopra.
Ok, questa era difficile.
- Controllare che ci sia la data sulle singole
confezioni. Mi sbaglio ancora, e anche
stavolta riapri tutte le scatole e metti l’etichetta con la data dove non
c’è.
- Prova di abilità a, b, c. A) distribuire la salsa di pomodoro sue due
basi entro 4 secondi perché il rullo scorre e se ci metti un secondo di
più gli altri operai devono accorrere per sistemare le
pizze prima che entrino nel forno. B) Fare gruppi di 10 e di 5 pizze
intanto che il surgelatore ne spara a migliaia alla velocità della luce.
C) Contare 7 pizze e inscatolare, metterle nel verso giusto, il tutto
sempre sotto l’assalto delle pizze in arrivo.
Con le prove di abilità, devo
dire, me la sono cavata abbastanza bene. A mia discolpa dico che Santiago me lo
poteva spiegare a parole quello che dovevo fare invece che a gesti. Per mettere
le etichette batteva il dito sul riquadro della scatola poi alzava l’indice per
farmi capire che dovevo stare attenta, e infine mi mostrava come staccava e appiccicava
il foglietto. Oppure, per avvisarmi che potevo andare in pausa pranzo, si
beccava sulla bocca con la mano, e siccome non si ricordava il mio nome faceva un verso gutturale così tu per forza ti giravi. Forse era
semplicemente sordomuto e non me ne sono mai accorta.
No, la fabbrica non faceva per
me. Il povero Santiago era anche una buon’anima, credo di avergli fatto vedere
i sorci verdi. Siccome non mi piace essere negli incubi delle persone, una
mattina vado da lui e mi scuso per avergli recato problemi e gli dico che
capisco che è il caso che me ne vada. Non se lo aspettava. Mi ringrazia
per la mia onestà e mi congeda con una pacca sulla spalla. A pranzo poi, visto
che ormai si poteva sbottonare, mi dice che il mio iPhone 3G è una cagata, che
l’ho pagato un sacco e che mi sono fatta fregare. Sfotti, sfotti, te intanto
sei da 15 anni in Australia e ancora parli l’inglese come un immigrato appena
sbarcato, tiè.
E Giuliano?
Giuliano l’hanno mandato via dopo
tre giorni. Da quello che ho capito però, nel suo caso c’era in ballo una
questione territoriale, una ripartizione tra maschi Alfa, conoscenze che
andavano piazzate e via discorrendo.
Eravamo di nuovo insieme quindi? Sì ma sempre lontani. Cioè, lui era lontano, io no. C’era poi ancora la ragazza trevigiana nella sua vita, faceva il duro ma le voleva bene, come io del resto volevo bene a lui e me lo facevo bastare. Ma a parte questo, non ero ricambiata e fine. Che poi anche immaginando un happy end, che fare delle nostre vite? Obbiettivi futuri diversissimi: io sarei andata a Londra forse a studiare, lui in Indonesia in cerca delle solite avventure.
Ve lo dico subito, ne sono capitate tante da allora. La mia vita scorre ancora sotto il suo ponte, gliela racconto tutta, un fiume su cui transitano navi dorate, con feste e sceicchi a bordo, che però una volta passate si dimenticano in fretta. Giuliano è invece la felpa che porto sempre con me nello zaino, che se non ho mi viene freddo, il tempo in 4/4 dello spartito attorno cui le mie note ballano.
Sotterrerà chilometri, mesi e innamoramenti. Cavalcherà lo spazio e il tempo. Ma ancora non lo sapevo.
Ve lo dico subito, ne sono capitate tante da allora. La mia vita scorre ancora sotto il suo ponte, gliela racconto tutta, un fiume su cui transitano navi dorate, con feste e sceicchi a bordo, che però una volta passate si dimenticano in fretta. Giuliano è invece la felpa che porto sempre con me nello zaino, che se non ho mi viene freddo, il tempo in 4/4 dello spartito attorno cui le mie note ballano.
Sotterrerà chilometri, mesi e innamoramenti. Cavalcherà lo spazio e il tempo. Ma ancora non lo sapevo.
Nel frattempo, comunque, avevo cambiato casa. Dormendo sul divano della sala mi toccava stare sveglia a volte anche fino alle due di notte, perché i ragazzi fumavano e giocavano alla Playstation a oltranza; considerando che al mattino la sveglia era alle cinque e che dentro la fabbrica ci dovevo stare per dieci o dodici ore filate, a una certa m’ero un po’ esaurita.
La casa la scelgo nello stesso
quartiere. Non voglio essere lontana dai miei amici, anche per uscire insieme,
fare serata eccetera. Perché lo so come funziona nelle città grandi, finisce
che non ti riesci mai a beccare. La trovo quindi a Brunswick, in Albion street.
Con la fabbrica ho guadagnato
$1700 in due settimane così non mi faccio problemi per una bella casettina,
camera singola, pavimenti in parquet, bagno con doccia superbomb, giardino e
garage. Affitto costosetto, $850 al mese, me lo posso permettere, figurarsi.
Poi vabbè, mi sono licenziata. Per un mese sono a posto, mi dico, sarò buona di
trovare un altro lavoro, no?
I giorni successivi sono stati
idilliaci. Poter dormire, finalmente, e farmi passare gli acciacchi. Non potete
immaginare come mi ero ridotta, lividi e dolori dappertutto, graffi uguale,
mani un disastro, le braccia di un’eroinomane, sul serio, da vergognarsi a
stare in maniche corte. E poi non sono venuta in Australia per guadagnare
soldi, sono partita per il party adolescenziale più lungo della mia vita. E
babbo, che ha sempre faticato, concorda con me.
Non ho idea che direzione
prenderò nei prossimi mesi. Ma è ok, sono venuta apposta qua per permettermi di
non saperlo. Il mio agente di Bruxelles non mi chiama più, sono dall’altra
parte del mondo, non si fida ad affidarmi nuovi lavori, illustrazioni intendo.
Va bene anche questo. Ho passato anni a dannarmi lo spirito per pubblicare
abbastanza titoli ogni anno, e poi? Una cosa capirò in questo viaggio, e ve la
anticipo già da ora: non vale la pena darsi pena. Si procede per tentativi. E
il webmastering insegna che a mettere pezze e correggere gli errori a volte si
fa peggio, conviene buttare il file e ricominciare d’accapo. Ripercorrere gli
stessi sentieri, a forza di cose, ti costringe a diventare abile. Rammaricarsi
è solo uno spreco di tempo e di energie.
Nella casa nuova c’è Tamish,
indiano chiropratico – che non è una malattia, è tipo un osteopata –, e Alicia
e Tom, australiana fisioterapista lei, californiano muratore lui. La pulizia
della casa, la sua bellezza, i suoi mille elettrodomestici da un lato mi fanno
sentire una principessa, dall’altro mi mettono un po’ d’ansia. Sapete, quando
avete l’impressione di non poter toccare niente in casa d’altri. Tamish me la
fa venire in realtà, cerca di essere sempre smagliante, è affettato. Poi non lo
capisco bene quando parla: oltre all’accento indiano ha anche la “s” sibila.
All’inizio, pensate, avevo capito che lui “stava insieme” a Tom, invece no, Tom
è sposato con Alicia! Comunque, dicevo, che ci ho messo un po’ a rilassarmi,
finché un giorno Tom, tornato dal lavoro stanco e affranto, si scola una birra
tutto d’un fiato e trionfante rutta da far tremare i vetri ed ecco, credo che
da quel momento abbia cominciato a sentirmi a casa.
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