lunedì 28 luglio 2014

Giuliano, sei il mio buco nel calzino.

Sono trascorse ormai un paio di settimane dal mio arrivo e quando Philipp mi chiede per l’ennesima volta se voglio partecipare alla meditazione delle 4:00 del mattino, la mia risposta è ancora no.
Un po’ mi incuriosisce, sono sincera, ma resta di fatto che le 4:00 del mattino sono ok per rientrare a casa, non per svegliarsi. Magari è l’occasione buona per togliermi dalla testa Giuliano. Sì perché, dopotutto, che senso ha pensarci ancora?
Eppure ogni pretesto balordo me lo porta alla mente: può essere la risata inconsulta di un cocobarra tra le cime blu degli eucalipto, o l’unica mela ammaccata nel cesto di frutta. Il ragno nel bel mezzo del muro, il buco nel calzino, il segno del cuscino sulla guancia quando ti svegli; per il brivido liberato da una piccola sorprendente sorpresa. E finisce così che Giuliano, per un motivo o per un altro, ce l’ho sempre lì.
«Suoni qualche strumento?»
Philipp si aspettava una mia risposta dall’alto del suo metro e ottanta. «Peccato,» ribatte affettando il tono di voce, «poteva essere interessante». Annuisco cordialmente senza agganciarmi alla sua voglia di parlare.
La sala da pranzo è viva e languorosa. Fuori è sera e gli ospiti spostano le sedie in cerchio per stare  più vicini. C’è un uomo del Belgio che mi guarda spesso e che mi sorride. La figlia di Ruth, la cuoca, ha 12 anni e mi fa domande sul perché e sul per come disegno col computer. Io le dico alcune cose vere e altre inventate, lei capisce e cominciamo a scherzare. Philipp, che era rimasto in piedi dov’era, fila al pianoforte e comincia a suonare. Dicono di lui che sia bravissimo, ma non sta eseguendo Beethoven o Liszt, quindi non saprei. Faccio caso che ultimamente si siede spesso vicino a me a tavola ma ogni volta si agita come se stesse partecipando a un provino: fa le imitazioni, corre da una parte all’altra del tavolo, cita in sanscrito e in latino, fa il serio, il matto, l’intellettuale; e visto il multi-tasking penso che può essere anche lui dei Pesci come me, e infatti lo era.
«Tengo la lezione tra un’ora, nella casa verde; mi farebbe piacere se tu partecipassi.»
Non è che morissi dalla voglia. Volevo collegarmi su skype per parlare con Sofia e mio padre, ascoltarmi i messaggi vocali degli amici su whatsapp e guardarmi Breaking Bad. Poi Lea mi dice se mi va di fare una passeggiata con lei e Till dopo la lezione, e quindi accetto e mi prendo tutto il pacchetto.

Le scarpe vanno lasciate fuori, mi dice Lea. Stanno tutti seduti all’indiana per terra a cantare una preghiera. Philipp è al centro, vestito di una tunica bianca, suona e canta. C’è una specie di saluto da fare quando si entra, in pratica si deve accostare la fronte al pavimento. Dopo i canti, Philipp comincia la lezione. Per quanto ha soli 23 anni si atteggia con la sicurezza e l’esperienza di un uomo di profonda saggezza. Le ragazze sono visibilmente attratte dal suo personaggio e lui si compiace della loro tacita adorazione. A 30 anni suonati certe personalità non mi fanno più tanto effetto e osservo la scena con tenerezza. La lezione è strutturata come quelle degli incontri di CL, i concetti sono semplici anche per un idiota, e il vocabolario non solo è ridotto e limitato, ma è del tipo che fa presa sui disperati. Poi a una certa, quando dice senza mezzi termini che i presenti in sala sono migliori di quelli che vanno ai club e alle feste bevendo alcol, eccetera, mi viene naturale ribattere «cioè di quelli come me?».
Philipp si mette a ridere graziosamente, poi comincia il dibattito. Non dico esattamente quello che penso, anche perché sono appena arrivata, voglio studiarmela un attimo. Era un mondo totalmente nuovo per me, non avevo visto niente del genere prima. I ragazzi sono carini e gentili, tanto i monaci che i viaggiatori, nel senso che in un posto del genere non ci finisce, per intendersi, un punkabbestia, se non per disintossicarsi.
Finito tutto, io, Lea e Till ci incamminiamo per la collina. È un buio cieco, ci sono alcuni lampioni ma non illuminano tanto, per fortuna abbiamo le torce. Lea mi piace. Anche se è timida e parla pochissimo, è una ragazza sveglia. Till è un buontempone, riflette sulle questioni che gli poni e ti risponde giudiziosamente, ma senza alambiccarsi troppo o prendersene pena.
Dopo circa mezz’ora arriviamo in cima. C’è tutto il mare lì di sotto e Woolongong illuminata. Ho trovato dei nuovi amici e ne sono felice, da sola mi annoiavo troppo.

Il giorno dopo ritorno alla casa verde e chiedo di Philipp.
«Ti posso parlare di ieri sera?»
Gli chiedo un sacco di cose, lui è ben contento di rispondermi. C’è un bel sole, una bellissima giornata. Ci mettiamo in veranda a parlare.
«Quando hai deciso di diventare un monaco?»
«Avevo 17 anni, ho conosciuto un ragazzo che mi ha introdotto in un circolo hare krisna; è difficile da spiegare cosa mi ha spinto a diventarlo, l’ho sentito, così mi sono rasato a zero e sono partito per il Sudafrica, lasciando casa e scuola. Avevo i capelli lunghi, sai?»
«E tua mamma che ha detto?»
«Cos’ha detto, niente, che doveva dire, avevo preso la mia decisione.»
«E una ragazza ce l’avevi?»
Si mette a ridere, gli erano venute le fossette sulle guance. Ha la pelle rosa e chiara, quasi non c’è ombra di barba. Penso che di quel tipo lì diventano brutti invecchiandosi. Ero stata un po’ sfrontata, anche se la domanda era semplice e banale, ancora non ci conoscevamo bene e aleggiava un certo rigore nella casa verde.
«Io posso diventare monaco?»
«Vuoi diventare monaco?»
«Dico, se volessi.»
«Certo che puoi.»
«Perché allora i monaci sono tutti uomini?»
«Credo ci siano differenze tra uomini e donne, che non vuol dire –»
«Allora non è vero che posso diventare monaco? Quindi siete sessisti come nel cattolicesimo –»
«Ci sono delle differenze “biologiche” che non mi potrai negare, come che la donna è più emotiva, ha più difficoltà nel prendere il distacco dalle cose, all’uomo resta più facile, che non vuol dire che sia migliore o peggiore…»
Il discorso si faceva ampio sul ruolo del monaco, c’era da tirare fuori Platone e altre storie, per cui ho glissato e proseguito con le altre domande sul guru e come lo si diventa.
«Tu vuoi diventare guru?»
Lì l’avevo visto cambiare espressione, come se lo stessi prendendo per il culo, che un po’ effettivamente era.
«Ma che significa? Non è che lo puoi decidere tu, vieni scelto…»
«Ho capito, ma ti piacerebbe? Nel senso, come vivi questa spiritualità – non ti prendo in giro, sto solo cercando di capire… se diventi guru significa che hai raggiunto un certo livello di crescita spirituale, no?»
In lontananza vediamo avvicinarsi dei cervi. È sempre un piccolo miracolo vedere i cervi, specie da tanto vicino.
«A volte arrivano fin qui, sotto la mia finestra. Entriamo dentro, c’è un libro che voglio farti leggere.»

lunedì 21 luglio 2014

Dalla città alla foresta.

Felice, felicissima di lasciare l’ostello. L’ultima sera l’ho trascorsa in camera con le ragazze che ci avevo trovato dentro. La ragazza di New York secondo me era un tutt’uno con il letto e il portatile, non l’ho mai vista in piedi, nemmeno per andare a fare pipì. L’inglese si coricava tutti i giorni alle 18 e passava qualche ora sul cellulare prima di addormentarsi. L’ultima sera siamo state un po’ insieme a chiacchierare e ho letto i tarocchi a tutte. Ovviamente, professionista del campo, le ho lasciate tutte piacevolmente sorprese, anche l’australiana alcolista, che tra una chiacchiera e l’altra s’è scolata una bottiglia intera di vino da sola.
Ero felice più che altro di trovare un posto dove stare.
Prendo il treno da Town Hall. Sulla mappa, Coadcliffe è nel bel mezzo del Parco Nazionale. Sembra davvero vicino alla spiaggia e a giudicare dal sito web Vamana Valley sembra un paradiso, questa volta non mi sbaglio.
Il treno si allontana da Sydney, chilometro dopo chilometro, passata la stazione di Engadine, i centri abitati cominciano a scarseggiare. Dal finestrino vedo solo immense distese di eucalipto e qualche palma, che si stirano morbidamente fino a unirsi nell’orizzonte. Scendo a Helensburgh per cambiare. Wow, sono completamente in mezzo alla giunga! Non so se posso chiamarla “giungla”, ma ci assomiglia molto.
Alla stazione di Coadcliffe non c’è niente. C’è una signora dai capelli di nuvola seduta su una panchina con i piedi a mollo in un catino. La individuo subito come la classica persona bizzarra che bazzica per ritiri matrici e connessioni spirituli, le chiedo quindi dove posso trovare Vamana Valley e lei senza esitare mi dice di girare a destra una volta arrivata infondo alla via.
Il posto è vicinissimo alla stazione, tre minuti a piedi con lo zaino da 20 kg. Giardino immenso, curatissimo, campo da pallavolo, parcheggio. Tre edifici di diversa grandezza. Uno, scoprirò poi, è il dormitorio maschile dei devoti di krisna, uno l’abitazione della cuoca e di sua figlia, l’altra composta da due ali laterali e un corpo centrale di due piani è la sede principale. Le ali laterali sono le stanze per i guests e i volontari, il corpo centrale ospita due ampi saloni in parquet per gli yoga retreit, la sala da pranzo e la cucina.
Mi dicono di parlare con Philipp. Mi immagino, non so perché, un signore anziano, invece è un ragazzo tedesco di appena 23 anni. È carino, sicuramente non il tipo di ragazzo che può piacermi. Io invece mi accorgo di piacergli subito. Mi spiega a larghe linee cosa comporta essere un volontario: in pratica ci si divide i compiti tra gli altri volontari che consistono in apparecchiare per colazione, pranzo, cena, lavare le pentole (i piatti ognuno se li lava da sè), pulire le stanze degli ospiti, i saloni eccetera. Mi racconta poi di essere un monaco, che a 17 anni è andato via di casa, interrompendo gli studi, tutto, per rasarsi a zero, vivere per krisna e volare in Sud Africa. Si vede che è un ragazzo sveglio, molto, molto serio, di quelli con il palo nel culo, come li chiamo io, ma tutto sommato piacevole.
La mia camera è molto carina e accogliente. Ci sono quattro letti, due dei quali a castello. Lea è la ragazza tedesca che divide la stanza con me. Al momento non ci sono altre ragazze a parte Paula, un’australiana di Sydney che viene ogni tanto. Anche lei è silenziosissima, un po’ per timidezza, un po’ per il suo inglese insicuro. Tutto il posto è ovattato nel silenzio. Le chiedo se è anche lei una devota di krisna, mi dice di no. Mi spiega che Joan tiene tutte le sere dopo cena la lezione spirituale e che ogni tanto ci va. Mi dice poi di seguirla che mi mostra il posto. Lei è in Vamana Valley da due mesi ormai. Ci era arrivata con l’idea di fermarsi qualche giorno, poi invece si è trovata bene. L’odore del posto è quello della Chiccoteca di Pesaro, legno, infusi e incensi. No alcol, no fumo, no carne e derivati, solo alimentazione vegana. Nel salone c’è il pianoforte e tanti tavoli in legno massiccio. Su un banco ci sono i tè, gli infusi, un mini frigo con il latte di mucca, di riso, di soia, di original soja. Zucchero rigorosamente di canna, frutta. Prendi quello che vuoi, mi dice.
Mi faccio una doccia e mi preparo per la cena. C’è un tavolo grande per i volontari. I krisna boys fanno gruppo, sono carini ma non troppo socievoli, e altri due ragazzi tedeschi. Il mio inglese è ancora sbilenco, è la prima volta credo, da quando sono in Australia, che non c’è traccia di italiani intorno a me. E la cosa mi fa molto piacere.
Ci metto un po’ prima di sentirmi totalmente a mio agio. La lingua vuol dire tanto. Ho ancora tanto da imparare – e sono trascorsi tre mesi – mi perdo parecchi dettagli, mi stanco un sacco, mi esprimo in maniera grossolana. Nonostante l’esitazione delle mie prestazioni linguistiche non ostacola il mio sense of humor, che è in grado da solo di intrattenere una tavolata.
Dopo cena aiuto Till a lavare i piatti. È un ragazzo tedesco di 19 anni, davvero carino e simpatico. Sono felice dell’ambiente che ho incontrato. Sono tutti molto rispettosi e gentili, curiosi di sapere da dove vieni e che fai. Curiosi, ‘via un pretesto di cui parlare.

Vado a letto presto. Sono così felice di essere in questo lettino di betulla, con la coperta e il portatile sulle ginocchia. Wi-fii everywhere, yeah. Inzio (col duplice significato del termine iniziare) la settimana con la prima puntata della serie Breaking Bad, che mi terrà compagnia per giorni e giorni. Ho detto già a tutti che ho intenzione di fermarmi a Vamana per un paio di mesi, per via del libro, e tutti sono molto contenti.
Il giorno seguente mi sveglio con una proposta della rivista francese Transfuge di illustrare in cinque giorni l’articolo sull’ultimo libro di Walter Siti. Sono un po’ in panico per la tempistica, ma di buono c’è che essendo in Australia ho un giorno in più. Mi tocca a disegnare nel salone dove si pranza perché mi serve un tavolo. Mi scoccia un po’ non avere il senso della solitudine attorno, importantissimo per un disegnatore, e il via vai di gente che passa e vuole vedere che fai non è il massimo, ma direi che posso ringraziare tanto e forte perché sto giro m’è andata davvero, davvero bene!
La colazione comunque è immesa. Tre tipi differenti di pane, due tipi di burro, marmellate, Vegemaite, burro di noccioline, tre differenti tipi di cereali, latte di mucca, di riso, di soja, frutta. La colazione è e resterà per sempre il mio pasto prediletto.

Gli ospiti, i guests, non vi ho detto, ma l’avrete immaginato, vanno e vengono. Al mio arrivo c’è uno sparuto gruppo di danzatori e suonatori della Taketina, una danza eseguita cantando, che ho provato a farmi spiegare, che tende a riprodurre “le vibrazioni della natura e perciò, praticandola, entriamo in contatto con essa”. Ma qual è lo scopo, chiedo a uno dei maestri, “vivere in armonia e in assoluta pace”. Vi anticipo già che è stato il gruppo più simpatico tra quelli che ho incontrato in ben quattro mesi, dalla metà di febbraio alla metà di maggio. Per la maggior parte saranno gruppi yoga, niente di particolare, la gente viene per fare ginnastica. I migliori sono quelli che cercano le “connessioni” che hanno voglia di parlare e di attaccare bottone. I peggiori quelli del silenzio, tipo stanno dieci giorni senza parlare, si alzano alle cinque per meditare e alle sette di sera vanno a dormire, e quelli che gridano, che invece urlano per una settimana di fila, ma non mi sono mai capitati.

Le prime giornate trascorrono veloci grazie alle illustrazioni da fare. Mi è tutto ancora molto estraneo, non mi sento a casa. Ho notato però che questo è normale viaggiando, ci vuole sempre un po’ all’inizio prima di ambientarsi, e una volta che lo sai ti passa prima.
Non mi danno mai le colazioni, sempre il pranzo e la cena, questo significa che posso dormire fin che voglio, la colazione la smantellano alle dieci. Significa anche che posso disegnare fino tardi, immersa nella notte, finalmente sola. Quasi sola. Un opossum entra nel salone e si fionda a mangiare la frutta. Quant’è bello!!! Non ho mai visto un opossum dal vivo. Mi avvicino. Tanto. Ha il nasetto rosa rosa, gli occhi neri dei roditori, una bella coda lunga striata, più gonfia all’estremità. Riesco a toccarlo, troppo impegnato a mangiare per curarsi di me.

martedì 15 luglio 2014

«Baldi, a te capita in un giorno quello che a uno normale capita in un anno».

«E invece, di un po’, come sono i piselli di Sydney?»
La Central Lybrary è luminosa e accogliente come un Apple store. Sul tavolo in legno chiaro laminato, col beneficio del wi-fi gratuito, rispondo a Giuliano sulla chat di facebook.
«Sei sempre un signore…»
«Allora?»
«Ti ricordo che sono qui da quattro giorni.»
«Daaai, a me puoi dirlo!»
«Diavolo! Per ora ho conosciuto solo mandrie di ragazzini arrapati, per carità...»
«Ci sarà qualcuno decente…»
«No, e poi “decente” non è un grande premessa…»
«Vabbè…»
«Ma poi scusa, a te che te ne frega?»
Cielo, come mi manca.
«Comunque, io e Genna ti veniamo a trovare.»
A chilometri di distanza, nello stato del New South Galles, l’assenza di Giuliano è più forte di una sua ipotetica presenza. Per qualche ora si prende tutta la mia testa e non c’è verso di mandarlo via.
«Excuse me…»
Il ragazzo seduto accanto a me, ma sì, certo, ci eravamo conosciuti al party della sera prima.
«Hey, ciao, sì, sono io quella della festa, come stai?»
È un bravo ragazzo senz’ombra di dubbio, lombrosianamente parlando. È inglese, dello Yorkshire, quindi pronuncia bus come si scrive e non /’bas/. Parliamo delle solite cose di cui parlano tutti i backpackers. Entrami stiamo cercando lavoro, o meglio, stiamo cercando di capire cosa vogliamo fare. Restare a Sydney o ripartire?
Concordiamo che Sydney è davvero molto cara. Il rischio è spendere un sacco di soldi prima di trovare lavoro, se lo si trova. Non ho molto denaro con me, sono partita con 2,000 dollari da cui ho tolto i 250 dollari delle bollette, il treno, l’ostello e in generale sopravvivere in City.
Poi, mio problema sono sostanzialmente due problemi: la tendinite che mi ha distrutto le mani, e che quindi devo tenere a riposo, e i disegni per Emma di Jane Austen da cominciare ad illustrare tra un mese circa.
Per il libro, per il quale ho bisogno di una connessione internet, un tavolo e un lavoro part-time, la situazione ideale sarebbe fare woofing in un giardino bio-dinamico a ridosso di Sydney, magari anche sul mare. E Vamana Valley, un residence hare krisna che ospita eventi spirituali, attività di danza, yoga eccetera, sembra una buona soluzione. La descrizione del posto riporta anche la presenza di 15 volontari, e la cosa mi piace: voglio stare in mezzo ai ragazzi, famiglie e coppie solitarie bandite per sempre. Decido anyway di dormirci su.
Cazzeggio su facebook per un po’ prima di tornare in ostello. Modifico la località del mio profilo facebook, cancello Melbourne e scrivo Sydney, non si sa mai. Nel giro di nemmeno un paio d’ore vari amici mi contattano con lo stesso oggetto Oh, ma sei a Sydney?

Lo sai che a Sydney ci sta la Noe col moroso?
Lo sai che a Sydney ci vive Mascioni con la moglie? Daaii, Mascioni! Sei venuta con me un giorno a casa sua all’Acqualagna, ti ricordi?
Lo sai che a Sydney ci vive mio cugino?
Lo sai che a Sydney ci sta uno che giocava a calcetto con me nel 1998?
Lo sai che a Sydney ci vive Del Piero?

Digli che sei mia amica.
Chiedigli l’amicizia su fb, ti aiuta di sicuro a trovare lavoro, al massimo vi fate un birra!

Il bello di essere Italiani all’estero è che di sicuro non ti puoi sentire solo, nel senso che se anche ti ci impegni non ce la fai a isolarti. Deve essere qualcosa di profondamente radicato nei geni, nell’istinto, come i piccioni viaggiatori che non si perdono mai, sì, deve essere per forza qualcosa del genere. E non riguarda i francesi, ad esempio, e tanto meno gli inglesi o i finlandesi; appena forse i tedeschi, ma solo per vendersi o affittarsi autoveicoli e posti-letto, lavorare, ottenere informazioni utili per viaggiare.
La Noe comunque è in chat, M’ha detto l’Eli che sei a Sydney! Questo è il mio numero.
Mascioni intanto mi ha risposto su facebook e anche lui mi lascia il suo numero.
«Cate, madonna, come stai?»
«Ciao Marco! Bene, sono arrivata qualche giorno fa!»
«Ascolta, che fai adesso? Perché non vieni a casa mia? Oh, ma la Mari come sta?»
Finisce che vado a casa di Mascioni e di sua moglie, passiamo tutta la sera a parlare in dialetto urbinate/acqualagnese. Si discute dell’Australia, dell’Italia, della politica, della nostra generazione, il tempo che passa, le prospettive future. Mangiamo una pizza, c’è anche un’altra coppia di italiani che sono così gentili da riaccompagnarmi in ostello in macchina. Il ragazzo, Luca, 29 anni, del sud, mi racconta che si era ritrovato a Sydney completamente senza il becco di un euro, senza un posto in cui dormire. Quando sei con l’acqua alla gola ti ingegni, e lui aveva trovato ospitalità, non mi ricordo come, da un tizio che gli aveva dato il garage dove dormire. Mangiare praticamente niente per qualche giorno e poi improvvisamente trovare lavoro. Ora sia Luca che Chiara, 26, del nord, lavorano in un carwash. Coi ragazzi ci scambiamo i cellulari, magari si va a Bondi Beach insieme una di queste domeniche.
Il giorno dopo becco invece Noemi a Pyrmont. Mentre la aspetto, un ragazzo in suite elegante decide di tornare indietro.
«Ciao… è parecchio ventoso oggi!»
«Già.»
«Scusami, ma hai degli occhi bellissimi.»
«Grazie.»
«Lo so che non ci conosciamo, ma se magari ti offro un caffè ci potremmo conoscere…»
«Grazie, sei gentile… è che sto aspettando un’amica!»
«Ok, capito… e domani? Posso lasciarti il mio numero?»
«Grazie, davvero, ma sono proprio di passaggio!»
Bah. Davvero, non me lo spiego, era uno dei tanti giorni di bruttezza estrema. La felpa di Leeds University, la giacca a vento della Quequa, il naso bruciato dal sole, seduta per terra come un’accattona. Poi arriva Noemi.

Bella come il sole, lei e il suo ragazzo sono appena rietrati dall’Asia. Io e Noemi non eravamo amiche a Pesaro, cioè eravamo conoscenti. Frequentiamo lo stesso gruppo di amici, solo che quando ho cominciato a uscire con loro lei è andata a vivere a Londra. Eppure dal primo secondo che ci parliamo al telefono è come se fossimo amiche da sempre. La stessa cosa è successa con Nicoletta e Simona. Io, non mi serve tempo per innamorarmi delle persone. Questo fa capire che siamo circondati da un casino di amici potenziali. Il più delle volte la differenza la fa l’apertura con cui ci approcciamo agli altri grazie al momento giusto. Il momento giusto non è altro che la somma di elementi che rendono una particolare circostanza favorevole alla confidenza reciproca. Nel mio caso, l’elemento favorevole è stato condividere lo status di italiani all’estero. Si sa, tutto ciò che ci è familiare ci evita un sacco di fatica e il cervello tende sempre al risparmio energetico. Il bello è che il familiare possiamo trovarlo ovunque, sta a noi, e di conseguenza abbiamo anche il potere di creare il momento giusto. Quello che conta, insomma, è avere familiarità.

lunedì 7 luglio 2014

Sydney.

La stazione del treno è grande ma non grandissima. Niente a che vedere con la Gare de Lyon, la Victoria Rail Station, Roma Termini. E uscendo in strada non ti da la sensazione che ti da New York, quando dopo ore sotto terra, tra la navetta e la metropolitana, sbuchi nel cuore di Manhattan e ti manca il fiato per l’altitudine che l’architettura ha saputo raggiungere. Però ero felice, felice di essere libera, al sicura, in una nuova avventura tutta da decidere.
Sydney non è subito bellissima, ci mette un po’. Devi aspettare il momento giusto, che prima o poi arriverà. Io l’ho amata tra un locale a l’altro con lo spirito di chi si è perso, incontrando qualcuno con cui fare i bagordi, e in una sera d’autunno, negli occhi blu di un francese, tra vino bianco, Truffaut ed enjambment.
Quello che ti salta subito all’occhio di Sydney sono i soldi. Che sono diversi dalla ricchezza. Ricche sono Roma, Parigi, Londra. A Sydney ci sono i soldi. Gli uomini di Sydney non ci sono a Melbourne. Vestono camicie eleganti, girano rigorosamente in completo. Pochi hipsters, al contrario di Melbourne. Discutono fitto al Queen Victoria Building con i palmari e i cappuccini sul tavolo. Sono bellissimi e intoccabili, troppo impegnati per curarsi delle donne e dei turisti che vagolano per le scale mobili in cerca del bagno.
I bagni. Potrei aprire un capitolo solo sui bagni in giro per Sydney. Quello del Queen Victoria Building – che scusate non ho detto, è un edificio liberty del tardo Diciannovesimo secolo che ospita negozi raffinati e cafè all’ultima moda – ha il pavimento piastrellato bianco e nero, i rubinetti in ottone, un’infilata di specchi sospesi al centro della stanza. Ne ho visti altri degni di nota in club panoramici in cima a The Rocks, ma questo accadrà in futuro, in compagnia degli occhi blu d’oltrape.
Per il momento arrivo all’ostello consigliato dalla Lonely Planet e mi danno una camera con sei letti a castello. Due inglesi, una tedesca, un asiatico. Arriverà poi un’americana che non uscirà mai dalla stanza, un’australiana alcolista e un brasiliano che una mattina troverò schiantato sul letto con le braghe calate giù.
Primo giorno voglio rilassarmi, mi dico, non mi va di angosciarmi subito con la ricerca del lavoro. Mi faccio un giretto qua intorno, tanto per farmi un’idea. Sydney, per chi non avesse idea, assomiglia alle fauci di un mostro visto di profilo. Il cuore della City, in un certo senso, è sul canino dell’arcata inferiore e intorno si impetalano gli altri quartieri. Il cuore della City, inteso come la zona che va oltre la Central Station e comprende Pitt St. e George St., non è un gran che. È pieno di backpaker, locali per backpaker, negozi, centri commerciali sotterranei (come a Melbourne ma molti di più e più grandi). A parte l’Opera House, i giardini botanici, ho amato molto i quartieri residenziali di Surry Hills e di Ultimo, Redfern, le case dei pescatori di fine Ottocento restaurate, bagante dal mare. The Rock è molto, molto carina, fai le scalette e arrivi in alto. Ci sono i locali più sciccosi e, devo dire, Sydney è una città che ti godi davvero se puoi spendere, a meno che di fare l’incontro giusto, o a meno che di partecipare alle serate per i backpaker dove paghi $20 per bere a sfondo in quattro locali diversi, c’è un gioco da fare di solito e chi vince va in vacanza gratis da qualche parte.
Ad ogni modo, quel primo giorno mi sento molto sola. Vado a letto presto, perché non so dove andare, perché ho voglia di sentirmi al sicuro. Marco, il ragazzo italiano che faceva le pizze e il dj, con cui ero stata a letto una delle ultime sere prima di partire, mi scrive ogni sera un messaggio e mi è di gran conforto, mi sento coccolata. La seconda notte però penso che devo assolutamente trovare una festa.
Sapete come funzionano molti ostelli, hanno la cucina e tu cucini. Compro il minimo indispensabile, il pane, due pomodori, le uova, due scatolette di tonno e il caffè solubile che mi devono bastare per l’intera settimana. L’acqua una bottiglietta che è sempre quella che riempio dal rubinetto e che fa schifo, ma qua l’acqua costa una follia, è carissima, come il gelato e la cocaina. Meglio l’acqua del rubinetto e la meth. Gli ultimi giorni avrò un’acidità di stomaco che non vi sto a raccontare. Finisco di cenare e mi piazzo in uno dei tavolini per farmi preda. I ragazzi dell’ostello stanno facendo un gioco e alla domanda “what is the Fandango?” io rispondo che è una danza. La squadra vicino mi fa cenno di partecipare.
Durante e dopo il gioco ci beviamo litri di vino in cartone, un misto tra Tavernello e tisana ai frutti di bosco. Poi si esce, maratona nei locali, si beve gratis. Età media 22, 23 anni. Dopo un po’ che prendo confidenza con il gruppo sfoggio i miei soliti numeri da cabaret: danze di ogni tipo, mischiando cultura, abilità e simpatia – l’ho detta come Caterina Balivo –, fischio. Lo so, è il solito repertorio di scemenze, mi sembro quei bontemponi di cinquant’anni che si sono giocati le stesse battute per una vita, ma tanto nessuno dei presenti m’ha mai visto e mai mi rivedrà più e ognuno, come da manuale, resterà piacevolmente sorpreso.
Sono anche come al solito vestita male e, sempre come al solito, in pochi minuti sono accerchiata dai maschietti. Eh, lo so. Trent’anni vorranno dire qualcosa, o no? Consapevolezza del proprio corpo, nessun tipo di dramma, ammiccare con leggerezza, e fine. Che poi è per scherzare e basta. Una ragazza che era con me si era però avvilita moltissimo. Si era agghindata con dovizia, avrà avuto sì e no vent’anni, florida e carina. Doveva sedurre qualcuno a ogni costo o sarebbe crollata psicologicamente quella sera. Si annaffia ripetutamente con una schifezza di gin e Redbull, quando non ce la fa più si bacia il primo che le passa davanti, poi molla e torna in ostello con le altre ragazze. Mi chiedono se voglio rientrare anche io. Non ne ho molta voglia a dire il vero. Mi volto per vedere chi c’è rimasto: solo due ragazzi svedesi.
Resto.
Siamo in tre, e l’atmosfera è pacifica e rilassata. Siamo in strada, siamo stanchi e abbiamo fame. Mi piace andare in giro con i ragazzi, non gliene frega niente. Le ragazze, specie se non le conosci bene, ti richiedono uno sforzo di delicatezza.
Non ricordo i loro nomi, ce li ho su facebook ma non ci siamo mai sentiti. Uno, Jorg (per dire), è alto, di bell’aspetto, ha la mia età e fa il ballerino di danza classica. Non ha niente dei ballerini di danza classica, assomiglia invece in sacco a Lorenzo Lamas, quello di Renegade. L’altro, Jirk (sempre per dire), basso, moro, tratti mediorientali. Lo guardo bene, non mi sbaglio.
«Sei iraniano?»
Gli canto Jane Marian, che mi avevano insegnato Sarah e Neda quando vivevo a Milano e loro erano in Italia per studiare una architettura, l’altra disegno industriale. E anche Jane Marian la ripropongo sempre ogni qual volta incontro persiani lungo il mio cammino.
Lui mi dice, Oh my God, I’m fall in love with you. Mi prende sotto braccio e torniamo in ostello tutti e tre insieme.

Il giorno dopo mi sveglio abbastanza presto e dopo la colazione mi dirigo per la biblioteca.
Questa è bella.
Incontro la ragazza inglese della sera prima che vedendomi sembra a disagio, ma io non me ne curo anche perché per quel che mi riguarda non ce n’è motivo. Lei mi dice che sta cercando lavoro, io che ancora non ho deciso cosa fare, comunque in teoria uguale.

Cammina, cammina, un cameramen, una giornalista con il microfono in mano. Si guardano intorno rapidi per pesacare qualcuno da intervistare. Incrociano i miei occhi e non posso fare a meno di fare un gran sorriso. La ragazza inglese se ne va, non vuole partecipare. Ahahah! Certo, solo a me può capitare qualcosa di simile. Come mi dirà poi Giuliano, Baldi a te capita in un giorno quello che a uno normale capita in un anno. Insomma, finisce che mi intervistano. Mi chiedono se soffro di mal di testa, quando mi viene e come me lo tolgo. Io mi figuro subito che magari lo Scozzese mi vede in televisione e si fa una risata. A parte lui, rispondo da gran signora che il mal di testa ce l’ho se mischio vino e birra, e che per farmelo passare mi prendo una pasticca e via.